venerdì 22 agosto 2008

Paradiso perduto

La navicella sobbalzava, quasi precipitando verso la superficie, attratta dall’elevata forza di gravitazione del grande pianeta.
Kaled faticava a tenerla orientata nella posizione di atterraggio, azionando alternativamente i propulsori per effettuare continue correzioni della rotta di discesa e resistere all’attrazione verso il basso.
Era la prima volta che manovrava una nave spaziale in presenza di gravitazione planetaria.
Mirna non perdeva d’occhio l’altimetro, che segnava in quell’istante una distanza di trentamila metri dalla superficie di Java.
Nella grande nave madre, che stazionava in orbita, la vita si fermò; in ogni corridoio, in ogni stanza, tutti fissavano i monitor che trasmettevano le confuse immagini provenienti dall’abitacolo della navicella, nutrendo speranze che scacciavano la paura.
Era il grande momento.

Quella porzione eletta di umanità lo aveva atteso per quattrocento lunghi anni, di generazione in generazione.
Da quando la Terra era collassata in seguito all’impatto con Icarus, un meteorite di quattrocento chilometri di calibro che l’aveva ridotta a una disabitata massa di ghiaccio, su cui solo alcune specie vegetali furono in grado di sopravvivere.
Nei due anni precedenti l’impatto era stata programmata e messa in atto la grande evacuazione.
Fuga dall’Eden, l’avevano chiamata.
Centinaia di grandi astronavi erano state realizzate a tempo da record dai paesi più sviluppati, che diedero fondo alle proprie riserve economiche ciascuno per proprio conto, nella più forte e prevedibile manifestazione di egoismo nazionale che la storia terrestre avesse conosciuto.
E poi l’incontro tra i superstiti, nello spazio esterno, sulle astronavi di decine di paesi, e la spontanea realizzazione, nella desolazione circostante il pianeta abbandonato, di relazioni “politiche” che per nulla riflettevano gli equilibri pre-esistenti su di esso: l’alleanza tra la primitiva flotta di navi intergalattiche cinesi e lo sparuto gruppo di navicelle australiane ad altissima tecnologia, l’assorbimento della flottiglia di aeronavi europee da parte dell’imponente squadra stellare della confederazione Pan-Araba, foraggiata dai potenti Emiri del Golfo.
Incontri, accordi, amicizie nuove, ma dal sapore antico dell’opportunità e della reciproca convenienza.
Kaled e Mirna appartenevano alla flotta indo-scandinava, derivante dalla fusione sotto un’unica bandiera delle sei astronavi nord-europee, decollate dal centro spaziale sulle isole Far-Oer, con il folto gruppo indo-pakistano, composto da ben venti navi di enormi dimensioni, realizzate con una tecnologia semplice e primitiva, ma cariche di immense riserve alimentari di ogni tipo. Questo fu il loro valore aggiunto: erano navi ben adatte a consentire di sopravvivere nello spazio per secoli.
Il 2145, l’anno dell’apocalisse.
La flotta indo-scandinava aveva preso una direzione diversa da quella che avevano deciso di seguire la maggior parte degli altri esuli, in quanto i suoi leader si basarono sulle segrete ed avanzate conoscenze astronomiche dei ricercatori danesi, e così persero il contatto con i profughi delle altre nazioni.
Se anche gli altri avessero saputo ciò che solo essi conoscevano, si sarebbe probabilmente accesa un’aspra e pericolosa competizione, con il rischio di mandare in malora una grande opportunità.
Dopo quattro secoli, durante i quali decine di generazioni si erano susseguite a bordo, la flotta era giunta in prossimità di Java, un enorme pianeta situato nel sistema di Sirio, dal quale alcuni anni prima dell’evacuazione era giunta una sonda, ammarata in pieno giorno nelle acque dello Jutland, a poche decine di chilometri al largo di Copenaghen.
Qualcosa di simile a quanto era accaduto sulla Terra negli ultimi due secoli della sua vita con l’invio di numerose navicelle esplorative verso lo spazio esterno; uno scrigno, pieno di oggetti e documenti, testimonianze uniche, conservate su supporti elettronici di tecnologia non troppo diversa da quella conosciuta sulla terra, decodificate quindi senza eccessiva difficoltà e tenute rigorosamente segrete alle altre nazioni del mondo.
Un vaso di Pandora, che aveva riversato una pletora di preziose informazioni su Java, sulla sua posizione astrale, la sua cultura, e le sue immagini.
Era stato questo il grande segreto.
Immagini di un mondo molto simile alla Terra, e di esseri fin troppo somiglianti ai suoi abitanti, avevano messo in luce l’esistenza di una seconda umanità in un pianeta lontano, aprendo la strada a rivoluzionarie teorie antropologiche.
Alcune di esse sostennero che gli uomini di diverse parti dell’Universo potessero derivare da un unico ceppo, e che dunque la vita umana, non nata necessariamente sulla Terra, fosse stata disseminata in diversi distretti abitabili della galassia; altre invece che la forma di vita dell’essere umano fosse l’unica intelligenza possibile in tutto l’Universo, l’unica cioè compatibile con le sue immutabili leggi e che perciò ovunque vi fosse vita intelligente, questa non potesse che essere umana.
Interrogativi del passato alimentavano ora una segreta speranza per il futuro: vivere.

Ma quando la flotta raggiunse l’orbita di Java, l’osservazione del suolo rivelò una drammatica verità: quelle immagini piene di vita e luce, la luce emanata dai due soli del sistema di cui il pianeta faceva parte, lasciarono il posto ad una cupa sensazione di solitudine.
Diversamente dal tempo in cui la sonda era stata inviata verso la Terra, Java era disabitata, le sue città immobili e abbandonate, i suoi abitanti, scomparsi, forse morti, o fuggiti, chissà dove, chissà perché.
I suoi mari, i suoi cieli, le sue terre, non rivelavano segno di presenza in vita dei lontani simili senzienti.
Sulla superficie giaceva silenziosa un’immensa distesa di rovine di una civiltà apparentemente estinta.
Grandi edifici deserti, città semisepolte da una rigogliosa quanto anomala vegetazione, vestigia di mezzi ad alta tecnologia e di una società progredita, che sembrava essere stata colpita all’improvviso, forse di sorpresa, dalla catastrofe che ne doveva aver causato la fine.
Ma anche un’atmosfera composta al settanta per cento di ossigeno e vapore d’acqua, una irradiazione ultravioletta tollerabile, e una gravità superiore solo del quindici percento rispetto a quella terrestre, nonostante le enormi dimensioni del pianeta.
E alla base di siffatta atmosfera, acque salate e terre che ne emergevano formando isole, monti, continenti, illuminati e nutriti dall’energia dei due soli, molto vicini tra loro, in un’alternanza di giorni e notti di durata paragonabile a quelle del bioritmo terrestre.

Mancavano ormai duemila metri al contatto con il suolo.
La navicella, un piccolo biposto, si era ormai stabilizzata, e Mirna e Kaled sentivano il proprio peso aumentare per l’effetto della incrementata gravità.
Il percorso di discesa si svolse giusto al di sopra di un’ampia baia marina, del tutto somigliante a quelle terrestri.
Ma né la donna, né l’uomo avevano mai visto il proprio pianeta d’origine prima della glaciazione (e nemmeno dopo), se non nelle immagini fotografiche del passato.
-Kaled!- esclamò Mirna guardando attraverso la finestra inferiore della navicella e indicando la distesa d’acqua che sotto il cielo rosso fuoco assumeva un intenso colore ramato striato di linee argentee. La donna fissava quel dolce spettacolo e si stava godendo una sensazione di calore interno che non aveva mai provato prima, nello spazio buio e freddo.
Nonostante fosse più lontana dai suoi due soli di quanto la Terra lo fosse dal proprio nel sistema solare, Java ne riceveva una quantità di energia tale da aver sviluppato condizioni ambientali più che adatte alla vita.
L’uomo attivò la configurazione di volo orizzontale; due piccole ali scivolarono all’esterno dei lati della navicella e l’inclinazione dei propulsori variò di novanta gradi. Con il nuovo assetto, i due furono in grado di sorvolare la zona alla ricerca di un punto d’atterraggio.
-Dirigiamoci verso la città- disse l’uomo.
-O verso quel che ne rimane- replicò la donna.
Volarono per pochi minuti a bassa quota, allontanandosi dalla costa, e Kaled dovette spingere quasi al massimo la potenza dei propulsori a causa della scarsa portanza, dovuta alla forte gravità.
Sorvolarono una specie di campagna, formata da una fitta rete di formazioni vegetali simili a quelle terrestri, ma più varie nell’aspetto e nella produzione di colori. Sembravano degli agglomerati di radici, emergenti dal suolo in un’interminabile unico groviglio e coperte da lunghe infiorescenze blu e viola.
La particolare foresta si interrompeva qua e là accogliendo ampie radure perfettamente circolari, al centro delle quali si erigevano alti fusti neri alla cui sommità sbocciavano giganteschi petali rosso carminio.
Durante il tragitto i due scorsero alcuni residui di insediamenti abitativi, quasi sepolti da quella strana e affascinante vegetazione; a mano a mano che procedevano verso l’interno i residui degli insediamenti si facevano più frequenti, finché giunsero a quello che un tempo doveva essere stata una vera città.
La visione di quello spettacolo indusse in Mirna e Kaled un’eccitazione prima sconosciuta, mescolata alla tristezza della solitudine.
Dall’intricata vegetazione emergevano edifici di forme impossibili, prova di una eccellente tecnica di costruzione, che si fondevano con la penetrante vitalità di quelle variopinte forme arboree.
Le gigantesche piante avevano trovato fertile humus fra i resti delle grandi conquiste architettoniche di un tempo trascorso.
Un alto edificio a forma di piramide rovesciata, riuscendo nella sua parte più alta a sfuggire alle involuzioni dello strano bosco, offriva una comoda base d’atterraggio.
Mirna scese per prima. Era emozionantissima e avrebbe commesso qualunque imprudenza pur di andarsene in giro ad esplorare il mondo che le si apriva dinnanzi.
Kaled manteneva invece un assetto estremamente razionale e controllato; aveva ben chiaro che dall’esito della missione esplorativa poteva dipendere il futuro dell’umanità.
Indossavano ancora la tuta spaziale e avvertivano una certa difficoltà nel muoversi.
-Tutto bene. La gravità è alta, come avevate previsto. Se dovremo trasferirci qui, sarà bene tarare i gravitatori a bordo per iniziare a farci l’abitudine…- disse l’uomo rivolgendosi al comandante Jan, in collegamento con la nave madre.
Fu Mirna a proseguire:
-Dobbiamo effettuare la prova di adattamento. Il barometro indica un’atmosfera di 800 Millibar, e l’aria ha una pressione di ossigeno sufficiente; non risultano presenti gas nocivi. Il livello di radiazioni solari ultraviolette è accettabile. Temperatura esterna… 28 gradi. Procedo, come stabilito.
E appena pronunciate queste parole, senza pensarci si sfilò in fretta il casco e portò rapidamente la mascherina su naso e bocca. I lunghi capelli biondi si sciolsero liberi nell’aria. Chiuse gli occhi e respirò a fondo l’ossigeno della bomboletta per dieci minuti. Radiazioni o gas ambientali non rilevabili avrebbero così potuto manifestare i propri effetti, iniziando dall’epidermide.
Ma non fu così. Durante quei dieci minuti assaporò il tepore della luce che le inondava la pelle del volto e le palpebre ancora abbassate. Allo scadere del tempo, gettò il respiratore a terra, con il coraggio che solo una donna avrebbe potuto avere. Respirò a fondo l’aria esterna e iniziò ad aprire gli occhi, lentamente.
Era sempre vissuta nello spazio, non era abituata al vuoto apparente di un’atmosfera respirabile in uno spazio aperto, senza pareti, senza confini. E tutta quella luce intorno, poi.
Fu aggredita da un effluvio di sensazioni odorose, tattili e visive che la stordirono; fu presa da un’immediata e violenta vertigine ed ebbe un moto di paura; si piegò sulle ginocchia, emettendo un debole e lungo lamento.
Kaled, che ancora indossava il casco, accorse in suo aiuto e la sostenne mentre la donna appoggiava le ginocchia sul suolo. Le prese con dolcezza il volto, la costrinse a guardarlo, e la vide sorridere felice, tra le lacrime.
Era nata.
Per la seconda volta, su Java.
Aspettava inconsciamente quel momento da un tempo interminabile, forse da quando era nata la prima volta, nello spazio.
Chissà se anche sulla Terra era andata così, miliardi di secoli prima, pensò.
Kaled seguì l’esempio della donna e respirando quell’aria ebbe una reazione di incontenibile nausea.
Si appoggiò allo scafo della navicella e vomitò.
Dopo qualche minuto di riposo, i due iniziarono il percorso di esplorazione.
Videro che il perimetro della superficie su cui erano atterrati era formato da una specie di alto parapetto, lungo il quale erano situati alcuni varchi che dovevano condurre all’interno dell’edificio. Salirono sul parapetto e si resero conto che per la forma della costruzione e a causa della vegetazione circostante, non era possibile indovinare cosa ci fosse al di sotto. Scelsero allora un varco e videro che dava accesso ad una specie di scala che portava in basso. Iniziarono a scendere.
-Questi gradini sono enormi… questi ‘uomini’ dovevano essere molto più grandi di noi- disse Kaled.
-Oppure- replicò Mirna -quella su cui ci troviamo non è una scala. Potrebbe essere tutt’altro.
Si resero conto che la strada sarebbe stata lunga. La scala, o qualunque cosa fosse, si avvolgeva su se stessa durante la discesa, come una grande scalinata a chiocciola di un antico palazzo terrestre.
Non avevano alternative: la nave non sarebbe mai potuta atterrare al suolo, a causa della fitta vegetazione, e questo era dunque l’unico modo per raggiungere la superficie del pianeta.
Dovettero accendere le torce perché la luce che penetrava attraverso il varco d’ingresso si esaurì presto e all’interno non c’erano finestre o aperture di alcun tipo.
Sulla parete laterale videro una specie di binario a circa due metri di altezza; più in basso il loro cammino fu interrotto dai resti di un grande contenitore, attaccato per un’estremità al binario. Era semitrasparente, sembrava fatto di vetro smerigliato.
Sui bordi si vedevano ancora delle scritte incomprensibili, realizzate con caratteri complessi che ricordavano in una certa misura gli ideogrammi delle lingue orientali terrestri.
-Credo che siamo in quel che rimane di un deposito- disse Mirna.
-E questo doveva essere un sistema di trasporto delle merci. Probabilmente una specie di vagone, o un ascensore- aggiunse dopo un istante di esitazione.
-Già- replicò Kaled -forse qui accumulavano riserve alimentari, prodotti agricoli.
-E’ possibile- confermò la donna.
Dovettero arrampicarsi sulla parete levigata del vagone per superare l’ostacolo, e scenderne con cautela sul lato opposto; non fu cosa semplice, soprattutto per il fastidio dell’incrementato peso di ogni parte del corpo e della tuta spaziale.
Dopo circa un’ora di cammino giunsero ad un livello in cui la superficie assumeva un andamento orizzontale; iniziò anche ad apparire un po’ di luce diffusa, che probabilmente entrava da quella che doveva essere l’uscita.
Si ritrovarono all’esterno.
Mirna calcolò che erano scesi per ben seicento metri.
A conferma di quanto era stato rilevato dalla nave madre prima di iniziare la missione di discesa, Mirna e Kaled videro ciò che rimaneva di quella che doveva essere stata una città straordinariamente viva.
L’intensa luce rossa emanata dai due potenti e lontani soli filtrava calda e tranquilla attraverso la vegetazione, che si avviluppava tra le rovine, generando ampie zone d’ombra alternate a ridotti spazi illuminati.
Il silenzio del luogo era interrotto solo dal sibilo delle lievi raffiche di vento caldo.
Ponti spezzati, tratti di vie sopraelevate ancora integri, resti di edifici di forme impossibili, quasi inconciliabili con le universali leggi della fisica, solo apparentemente aiutati a sorreggersi da quelle insolite e onnipresenti forme arboree.
Una grandissima struttura a forma di arco a sezione circolare, ancora intera, aveva isolato un ampio spazio sottostante che era stato così risparmiato dall’invasione delle grandi radici. Mirna e Kaled si trovavano al di sotto di essa e ne poterono ammirare la superficie inferiore, posta circa duecento metri sopra le loro teste, e piena di finestre e annessi di varia forma.
Poteva essere quel che rimaneva di un centro di collegamento, forse una specie di stazione per avanzati mezzi volanti di trasporto.
Kaled pensò che se l’ipotesi fosse stata corretta, introducendosi al suo interno i due avrebbero potuto reperire informazioni sulla zona in cui si trovavano, forse addirittura mappe o altri utili indizi.
Mirna non esitò a seguirlo attraverso uno spazioso ingresso.
Una volta entrati si ritrovarono in una grande sala, e in fondo ad essa videro delle porte, al di sopra delle quali erano posti dei display ancora funzionanti!
-Nessuna meraviglia- disse Kaled -l’energia utilizzata e distribuita sul pianeta è quasi di certo atomica e quindi virtualmente inesauribile… probabilmente ci sono ancora molti impianti e macchine funzionanti.
Ciò detto, si tolse il guanto e passò con delicatezza la mano su quello che gli era parso un sensore a destra di una delle porte, che si aprì immediatamente.
Una voce registrata pronunciò qualcosa di incomprensibile, con il tono seducente di una donna. I due attesero che la porta si richiudesse e riprovarono una seconda volta. La porta si riaprì e la voce si ripeté, identica a prima.
-Deve essere un ascensore. Speriamo solo che non sia a comando vocale- disse Kaled.
-Andiamo- tagliò corto Mirna entrando nella cabina, la cui altezza, come quella della porta, sembrava rendere più plausibile l’ipotesi dell’elevata statura fisica dei membri della popolazione indigena.
I due comunicavano tra loro in quella strana lingua che quattrocento anni di convivenza tra indiani e scandinavi avevano generato.
La donna aveva conservato quasi integralmente i caratteri somatici dei progenitori finlandesi, eccezion fatta per il dolce sguardo orientale che usciva dai caldi occhi castani, mentre lo strano effetto di contrasto tra i freddi occhi verdi di Kaled e la sua pelle color cioccolato erano la tangibile conseguenza della promiscuità che si era accentuata attraverso le generazioni nello spazio.
All’interno della cabina dell’ascensore Kaled vide una piastra a comando tattile simile alla precedente, ma molto più lunga e piena di simboli che trovò sulle prime incomprensibili; si sorprese poi nel notare che vi erano otto caratteri di base che si ripetevano in modo logico e coerente: era quasi certo che fossero numeri, presumibilmente di valenza simile a quelli del sistema arabo terrestre.
Ritenne che la sua preparazione di logico-matematico gli avrebbe permesso di decifrare quei simboli in non più di qualche ora di studio, e per un attimo fantasticò su quanto si sarebbe potuto divertire a farlo una volta che si fossero tutti davvero trasferiti sul pianeta.
Sfiorò la parte alta della piastra, sperando che l’ascensore li avrebbe portati il più in alto possibile nel grande arco. La voce femminile pronunciò qualcosa di diverso da prima e la porta si chiuse.
Nel giro di pochi secondi, durante i quali i due non avvertirono accelerazioni di nessun tipo, le porte si riaprirono.
Erano effettivamente saliti nella parte più alta del grande edificio ad arco, che era illuminata da ampie vetrate attraverso le quali la rossa luce esterna filtrava abbondante.
Mirna si soffermò a guardare il panorama per qualche istante mentre Kaled continuava a rimuginare su quei simboli numerici all’interno della cabina dell’ascensore.
-Che diavolo sarà mai successo qui, per tutti i numi dell’antica Terra!- esclamò rammaricata.
Un istante dopo Kaled uscì dall’ascensore e volse lo sguardo verso la sagoma della donna che ancora guardava fuori dandogli le spalle, resa scura dalla intensa luce rossa che colpiva gli occhi dell’uomo e riduceva la visibilità.
-Qualcosa di terribile…- rispose lui.
Mentre Kaled le parlava, lentamente Mirna si voltava nella sua direzione.
A causa della luce intensa che quasi lo abbagliava, Kaled non riusciva a vedere il volto della donna, ma intuiva qualcosa di strano; l’aveva percepito pochi istanti prima anche nella sua voce.
L’uomo si avvicinò ed ebbe una reazione di mostruoso spavento. Non poté fare a meno di gridare, balzando istintivamente all’indietro per allontanarsi da Mirna.
-Numi della Terra!- gridò con espressione inorridita -Mirna, che cosa ti sta accadendo?
Gli occhi di Kaled si erano spalancati in un’espressione di panico, e la donna rimase immobile, senza fiato, timorosa di conoscere chissà quale drammatica verità.
-Guarda… guardati il viso…- aggiunse l’uomo -stai… invecchiando!
Lo splendido volto di Mirna era in effetti invecchiato già di almeno vent’anni; i folti boccoli biondi si erano essiccati in un rado cuoio capelluto bianco e disordinato, i profondi occhi scuri esprimevano ora la stanca fatica dello sguardo di una donna anziana, e la sua immacolata pelle bianca di giovane donna nata nello spazio profondo al riparo da radiazioni planetarie, era solcata da impietosi segni di sfaldamento dell’epidermide, e rughe che si approfondivano ogni secondo di più.
La donna trovò una parete debolmente riflettente e riuscì ad osservarsi, poi presa dal terrore si sfilò i guanti e si guardò le mani, che presentavano segni dello stesso processo, essendo divenute spigolose, ossute e deformi come quelle di una vecchia trasandata e malata.
Provo un senso di ribrezzo verso il proprio aspetto e volle gridare, ma il fisico sempre più invecchiato e stanco non glielo permise; la voce le si spense nella gola in un gemito di dolore pieno di rabbia.
Poi, sopraffatta da una stanchezza senza precedenti, si abbandonò e cadde tra le braccia dell’uomo, che la adagiò al suolo.
Kaled iniziò a liberarla dell’ingombro delle varie parti della tuta spaziale e poi verificò che respirava ancora; aveva perso i sensi, e continuava a invecchiare in fretta.
Attivò immediatamente il collegamento con la nave madre e parlò con Jan. Per dare credibilità all’assurdo rendiconto, Kaled dovette puntare la telecamera incorporata sul braccio destro della tuta spaziale verso il volto della donna.
Tutti a bordo videro l’orrendo spettacolo ed ebbero una sensazione di ripulsa verso il pianeta nel quale avevano prima riposto le proprie speranze.
Il sogno collettivo era finito, di fronte alla drammatica realtà.
-Non capisco come mai tutto ciò stia accadendo solo alla donna- disse Urar, un biologo -i due membri della spedizione si sono mossi nello stesso modo per tutto il tempo e sono stati a contatto con le stesse sostanze atmosferiche e gli stessi corpi solidi; inoltre, non mi pare che si siano nutriti dei vegetali di Java.
-Forse per l’uomo è solo questione di tempo- ribatté Jan.
Mentre a bordo si discuteva dell’accaduto, Kaled ebbe un’intuizione: pensò a quanto più a lungo di lui la compagna si era esposta alla luce solare, quella luce rosso fuoco che le era piaciuta subito così tanto.
E decise di spostare il corpo di Mirna privo di sensi in una zona buia e lontana da fonti che permettessero il passaggio di quella luce, che per motivi che ancora non comprendeva sentiva ostile e dannosa.
Non ci pensò a lungo e senza nemmeno avvisare il comando si caricò in fretta il corpo della donna sulle spalle, raccolse le parti della tuta spaziale di Mirna, le fissò alla propria cintura per portarle con sé, e rientrò nella cabina dell’ascensore.
Aveva già decodificato parte di quei simboli logici della piastra di comando e aveva ipotizzato, dalla posizione invertita di alcuni segni ricorrenti, che alcuni di essi avessero valenza matematica negativa.
Poteva significare probabilmente che l’ascensore poteva entrare nel sottosuolo. Arrivare ai piani bassi, il più possibile lontano dalla luce.
Non si sbagliava.
Con la stessa fulminea rapidità della salita, Kaled raggiunse il quarantesimo livello del sottosuolo, il più profondo. Era ormai convinto che, più che un semplice ascensore, si trattasse di un dispositivo di teletrasporto.
Aveva sempre saputo che anche sulla Terra, prima della grande fuga, gli scienziati di alcuni paesi ne avevano realizzato dei prototipi.
Portò la donna fuori della cabina e la depose di nuovo a terra con delicatezza, illuminando il suo volto con la torcia e continuando a inquadrarlo, involontariamente, con la telecamera.
E fu così che con la stessa rapidità con cui era avvenuto l’invecchiamento, il volto e il corpo di Mirna, ormai prossimi alla caducità di una vecchia morente, iniziarono all’improvviso a ringiovanire.
In pochi minuti il suo viso riacquisì il suo splendido aspetto e la sua pelle fu di nuovo morbida come quella di un bimbo.
-Kaled… sono stanca… mi sembra di aver dormito per secoli- sussurrò Mirna appena si riebbe.
Sulle prime, riavendosi, la donna non ricordava bene quello che le era accaduto, e fu necessario che Kaled glielo raccontasse in modo dettagliato perché vaghe immagini di quella mostruosa e incomprensibile metamorfosi tornassero ad affacciarsi alla sua coscienza.
Il ringiovanimento di Mirna fu visto nella sala di comando sulla nave madre, e gli analisti spaziali iniziarono una meticolosa ricerca scientifica sull’accaduto, partendo proprio dall’ipotesi dell’effetto dei raggi solari.
Jan ordinò ai due di tornare immediatamente a bordo della navicella per far rientro sulla nave madre.
Kaled aiutò la donna a rialzarsi, e i due riguadagnarono il livello in superficie.
Indossarono nuovamente la tuta spaziale per proteggersi dalla luce, divenuta ora una temibile nemica.
Uscirono di nuovo allo scoperto per rientrare nel grande silo attraverso il quale erano passati qualche ora prima, per tornare alla sommità dell’edificio.
Improvvisamente fu la volta di Kaled.
Mentre correvano per rientrare, l’uomo si piegò e cadde; non tardò a rendersi conto che gli mancavano le forze perché era diventato un vecchio debole e stanco. Mirna lo aiutò a rialzarsi, ma l’uomo invecchiava precipitosamente e cadde ancora. Non c’era altra scelta: Mirna doveva portarlo al buio al più presto, perciò smise di aiutarlo a rialzarsi e trascinò il suo corpo senza troppa delicatezza, alzando una gran polvere e facendo un enorme sforzo fisico a causa della gravità.
Continuò così finché furono di nuovo all’interno della grande scalinata del deposito, dove vi fu una propizia oscurità.

Nel suo alloggio sulla Nave Madre, Mirna guardava verso Java, sempre più piccolo e lontano, e non riusciva a crederci. Non si capacitava di come l’Universo potesse essere così cinicamente ingannatore con i suoi sfortunati abitanti.
Non poteva accettare che in quel mondo meraviglioso la morte fosse in agguato proprio in quella morbida e calda luce che le aveva dato nuova vita.
Per un soffio era riuscita a salvare Kaled, il suo stesso salvatore, individuando fortunosamente un’altra cabina di teletrasporto con cui i due avevano raggiunto in fretta la navicella ed avevano fatto ritorno sulla nave madre.
Non c’erano più misteri che avvolgevano la triste sorte della civiltà che un tempo viveva sul pianeta.
Il gruppo di ricerca incaricato di sciogliere l’enigma era arrivato ad una conclusione tanto ovvia quanto amara.
L’antico sistema solare binario di cui Java faceva parte insieme ad altri cinque pianeti, stava subendo una trasformazione: la più piccola delle due stelle stava fondendosi nell’altra; il collasso tra i due soli generava tempeste magnetiche che potevano spiegare quanto era successo.
Alcuni pensavano si trattasse di radiazioni letali che causavano invecchiamenti reversibili del materiale cellulare; altri, ed era l’ipotesi più accreditata, che il collasso delle due stelle avesse generato delle correnti di distorsione spazio-temporali, così da spedire letteralmente ogni essere vivente nel proprio futuro biologico, almeno fintanto che questi fosse stato esposto alla luce dei due soli collidenti.
Le forme di vita vegetali sembravano però essere immuni al fenomeno, e questo rimase un mistero.
Era verosimile che fosse stata questa la causa della fine della civilizzazione su Java, e che anche i suoi abitanti stessero vagando in quel momento nello spazio profondo, esuli, alla ricerca di un nuovo giovane sole di cui nutrirsi.

Mentre la flotta si allontanava dal paradiso perduto, Mirna sospirò.
Poi pensò a quanto era stata fortunata.
Nei precedenti quattro secoli e forse anche per chissà quanti altri, era stata l’unica donna cui il cosmo aveva regalato la felicità di rinascere, libera, respirando alla luce e piangendo lacrime nell’aria.
Il calore del pianeta era ormai parte di lei.

La sua breve nuova vita su Java aveva regalato un sogno alla lunga sopravvivenza della progenie della specie umana.

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