venerdì 31 ottobre 2008

Un'altra vita

Racconto selezionato per l'antologia "Nuovi Autori Science Fiction" - NASF - Numero 4. (Comunicato organizzatori: NASF 4)

Ripenso spesso al giorno in cui me ne andai.
Ancora oggi, non saprei dire perché mai, nel pieno di una notte insonne, mi balenò in testa l’idea di partire, lasciare tutto e tutti, e cambiare completamente la mia vita.
Non c’era davvero un motivo preciso.
In fondo io a casa mia ci stavo più che bene. Le mie giornate erano abbastanza monotone, questo è vero, e la temperatura a volte era insopportabile per uno che, come me, a quel caldo infernale non aveva mai fatto l’abitudine.
A volte penso che, semplicemente, mi trovavo nel posto sbagliato.
E allora, quando me ne sono accorto, devo aver deciso di mettermi in marcia, per trovare il luogo dove sarei stato felice. Felice come se ci fossi nato e poi ci fossi vissuto felice di esserci nato.
Felice.
Ecco, deve essere così che è andata. Volevo sentire in me qualcosa che a casa non mi era mai riuscito, e che nei miei amici laggiù invece vedevo, beati loro.
Deve essere per questo che succedono certe cose. Vivi la tua vita e un bel giorno, bam! Se hai il coraggio di non chiudere gli occhi, ti accorgi che non è quella giusta e cominci a cercare. Ammesso in effetti che il termine, vita, sia quello corretto per l’esistenza che conducevo io a quel tempo.
Il problema è che non hai la più pallida idea di quale sia quella giusta. E così, una volta che hai cominciato, rischi di girare per secoli senza trovare niente di meglio. D’altronde, non era certo il tempo che a me mancava.
Comunque sia, ti convinci presto che cercare qualcosa di meglio è meglio che accettare quel che non vuoi più. Non so se mi spiego.
Quando lo raccontai ai miei amici, loro mi dettero del pazzo.
Lucy, Aleppo, Andreina, persino la piccola e dolce Fiammella. Quando dissi loro dove volevo andare a cercarla, la mia nuova vita, tentarono in tutti i modi di dissuadermi. Mi parlarono di insidie, pericoli, ostacoli a non finire.
-Sono dei bastardi quelli!- aveva persino gridato il caro Asmodeo, nella misura in cui gli era permesso dalla voce rauca da vecchio fumatore incallito.
Roba da far impallidire quelli che noi consideravamo i normali problemi della nostra quotidianità. Un conto, mi dicevano, è andare lassù per lavoro, e un altro è trasferirsi!
Era una vera follia. Perfetto dunque, proprio ciò di cui avevo bisogno.
Il primo problema che dovetti affrontare fu il mio aspetto. Non potevo certo andar lì come nulla fosse, e pretendere di essere accettato dalla gente. Fu una regola che mi imposi da subito: niente apparizioni, niente ricatti, nessun effetto speciale. E soprattutto, nessun patto con chicchessia.
La storia è piena di simili tentativi finiti male, molto male.
Dovevo prima rendermi il più possibile simile a loro, e non sapevo se avrei avuto qualche speranza di farcela. Ma era tale il mio desiderio, che le provai tutte, quando proprio fra gli abitanti del posto trovai chi era disposto a darmi una mano, naturalmente dietro cessione di una notevole quantità di soldi. All’inizio le mie fattezze spaventavano quella gente, poi, quando capivano che non c’era nulla da temere da uno con il mio carattere, e soprattutto dopo che avevano visto il contante, finivano sempre per sopportare di buon grado la mia presenza.
Ero preparato; conoscevo bene le loro debolezze; dopotutto, la mia professione mi aveva portato ad accumulare una notevole esperienza in tal senso.
Si trattava di lavorare, per così dire, su alcuni elementi particolarmente appariscenti, che avrebbero destato sospetti e risvegliato antichi pregiudizi.
Il chirurgo si rifiutò di darmi garanzie, ma mi disse che, se un giorno ci avessi ripensato, avrebbe potuto cercare di rimettere tutto a posto come prima. Ma io non sentivo di aver bisogno di una simile rassicurazione; a quel tempo volevo davvero tagliare tutti i ponti con il passato.
Lo ringraziai comunque per quella premura.
Per i primi giorni me ne dovetti andare in giro sorretto da una stampella e con una vistosa fasciatura intorno alla testa. Ancora però non avevo dolore, benché la lesione alla mia identità fosse evidente. Su ogni spalto, balaustra o ringhiera, dovevo sempre ricordare la mia nuova situazione, e lottavo con istinti ancestrali per costringermi a scegliere la via di terra.
Non potete immaginare quante volte, all’inizio, caracollai rovinosamente sul suolo prima di realizzare appieno che l’unico modo per potermi muovere erano le mie gambe, così sottili, e pensate al più per mantenere la posizione eretta in condizioni di riposo.
Penserete che chiamarle gambe è un eufemismo, ma il rispetto e la stima che ancora nutrivo per i nativi del luogo mi costringevano a rendere appropriato anche il mio vocabolario. Insomma, di quelle non mi preoccupavo troppo, dopotutto con quel clima freddo avrei sempre portato i pantaloni e nessuno ci avrebbe fatto mai caso.
Evidentemente dovevo ispirare molta pietà a tutti, perché ovunque andassi, in autobus, nei ristoranti, mi lasciavano sempre un posto per sedermi e si offrivano di aiutarmi. Era quello il loro lato buono, e non capii che si trattava di mera apparenza.
Poi c’era il problema del denaro, naturalmente, al quale però avevo pensato già prima di trasferirmi definitivamente. Averne a sufficienza era quanto mai opportuno, per non dire necessario.
Nelle mie ultime trasferte di lavoro avevo, diciamo così, forzato un po’ la mano a un paio d’amici, un killer professionista ed un rapinatore dalla mano pesante, e potevo quindi vantare un discreto conto in banca. Inoltre, con la mia ormai lunga esperienza in fatto di finanza creativa, avevo provveduto a farmi rilasciare una mezza dozzina di carte di credito.
Vi starete domandando come abbia potuto assumere un’identità a cui fatturare tutti questi servizi. Be’, pensate davvero che per uno come me fosse difficile? Dovevo solo essere molto attento ad utilizzare qualcuno che non fosse troppo in vista, qualcuno che nessuno avesse voglia di cercare.
Un reietto, uno dimenticato dal suo mondo, per trascuratezza, per superficialità, senza neanche un briciolo d’odio; uno così poco importante da non meritare nemmeno d’esser diseredato.
Uno come me.
Scelsi un giovane molto simpatico, ormai depresso cronico a causa della malattia incurabile. Aveva lasciato la sua famiglia in un altro paese, senza dir loro nulla, e viveva ai margini della società cosiddetta civile.
Ora che ci ripenso, era davvero un bravo cristo.
Da allora mi chiamai John.
John Johnson.
Cosa posso farci? Erano quelli, il suo nome e il suo cognome, e unica ragione del suo trapasso al mio cospetto.
Non gli feci male. Ho sempre detestato la violenza in ogni sua forma. Lui voleva morire, ed io lo accontentai. Pensate che quando mi vide e capì che razza di tipo fossi, disse che nel posto in cui lo avrei mandato finalmente ne avrebbe viste delle belle, e che gli stavo facendo davvero un gran favore, e che poteva smettere di pregare il suo dio.
Bah.
Io invece non sarei mai tornato laggiù, e per niente al mondo. Doveva essere una questione di punti di vista.
Più i giorni passavano, più speravo di abituarmi a quel clima, che trovavo ancora decisamente piuttosto freddo per la mia primitiva biologia corporea. E’ strano a dirsi, ma devo ammettere che il caldo di casa, proprio quel caldo secco che avevo sempre detestato, a tratti, e in qualche modo, mi mancava. Immaginai che al mio fisico sarebbe occorso ben più di qualche giorno per adattarsi.
Per non parlare degli sbalzi termici fra giorno e notte. Indecenti.
Per fortuna, riuscivo a riscaldarmi abbastanza, grazie al cappotto in cui nascondevo le ferite dell’intervento chirurgico, e le fasciature che ancora proteggevano le numerose cicatrici da virus e batteri. Prima o poi dovevo decidermi a perdere quel senso di vergogna che mi faceva sentire ancora un diverso, ma non potevo nemmeno essere troppo avventato.
Prudenza, amici, ci voleva prudenza.
Non vi nascondo che le ferite mi davano uno sgradevole senso di fastidio che sapevo si sarebbe presto tramutato in autentico dolore; soprattutto all’osso sacro. Mi rifiutavo sistematicamente di poggiare il mio di dietro su sedie di legno o metallo che non fossero addolcite da uno strato di stoffa sufficientemente alto e morbido. Ricordo che mi comprai perfino un piccolo cuscino, che tiravo fuori al momento opportuno.
Dopo un paio di settimane iniziai a far a meno della benda che mi avvolgeva la testa. Potete immaginare le battute idiote della gente alla vista dei due grossi lividi che avevo in fronte, che avevo tenuti ben celati fino a che c’era stato del sangue. E che sangue, il nostro. Rosso come il fuoco.
Cominciai a grattarmeli continuamente; doveva essere un tic nervoso. Quando da un giorno all’altro ti tolgono qualcosa che hai sempre sentito tuo, istintivamente continui a cercarlo, un po’ per abituarti alla nuova condizione, un po’ perché in fondo in fondo c’è una parte di te, nell’inconscio, che si oppone sempre e comunque al cambiamento.
Ma certo, che ce l’ho anch’io un inconscio. E bello sviluppato, per fortuna.
Dovetti cercarmi una casa.
Da quelle parti vagabondi, nomadi e senza tetto sono guardati con diffidenza, e di buone ragioni per essere emarginato come un povero disgraziato io ne avevo già abbastanza di mio; per fare più in fretta mi rivolsi quindi ad un’agenzia immobiliare.
Scelsi un vecchio seminterrato quasi abbandonato in periferia, una via di mezzo fra una cantina dismessa ed un box per automobili, che fino a poco tempo prima era stato il ricovero di un gruppo di profughi clandestini che ci erano vissuti in sette. Ci faceva talmente caldo che ci stavo bene, e poi era il modo migliore per non dare nell’occhio. C’era sempre tempo per progredire nella gerarchia sociale, e io volevo iniziare dal basso.
Non c’era molta luce, ma per me quella non era certo una novità.
Avrei potuto pagare in contanti l’intera somma, ma per la già citata esigenza di discrezione preferii seguire la via della gente comune, e mi rivolsi ad una banca per ottenere un mutuo.
Ne scelsi una a caso, una piccola filiale a soli tre isolati dalla mia futura casa.
Mi imbattei presto in un problema che mi doveva accompagnare per molto tempo ancora: non riuscivo ad entrare a causa della cellula fotoelettrica della porta automatizzata all’ingresso.
Quella maledetta fotocellula non mi vedeva. Ero ancora troppo diafano. E così, approfittando del fatto che la cabina di controllo poteva ospitare due persone contemporaneamente, ogni volta che dovevo entrare ero costretto ad appostarmi in attesa che dovesse entrare qualcun altro, e lanciarmi in una vorticosa rincorsa del nuovo avventore per abusare della sua gentilezza e prodigarmi in scuse mentre invadevo con la mia goffaggine quello spazio angusto.
Potete figurarvi come il poliziotto di guardia osservasse la scena, anche considerato che indossavo un pesante cappotto invernale nel tiepido periodo primaverile. Durante la scansione di sicurezza, aveva occhi solo per me. Dopo un po’ ci fece l’abitudine e non ci badò più.
Anzi, alla quarta volta che mi recai lì scambiammo anche due chiacchiere, e io gli imbastii una storia inverosimile che mi vedeva reduce dalla guerra appena finita, costretto a nascondere le mie ferite, che lui, senza manco averle viste, definì onorevoli, Non sapevo nemmeno io a quale guerra mi riferissi, ma sapevo che ce n’era sempre una a cui lui avrebbe pensato.
Joseph, così si chiamava il brav’uomo, mi esortò a scoprirle e mostrarle con orgoglio, e io lo ringraziai e gli dissi che ci avrei pensato. Aggiunsi che quando avessi deciso lui sarebbe stato il primo ad avere questo piacere, e lui replicò che sarebbe stato un onore.
Ricordo come scandì le sillabe di quella parola: o-no-re. Gli uomini danno valore a cose strane e lo tolgono a quelle più ovvie.
Una volta entrato, ricordo che ebbi a che fare con un giovane rampante funzionario addetto alla concessione di mutui, prestiti, e finanziamenti di ogni tipo. Nell’attesa che arrivasse il mio turno, lo vidi cacciare a male parole prima una vecchietta sotto sfratto e poi un invalido civile che non aveva più soldi per pagare l’avvocato nella causa che aveva intentato contro la banca; qualche minuto dopo, lo osservai mentre accettava la proposta sessuale di una giovane donna sposata da poco, e disposta a tutto pur di non subire un ulteriore aumento del tasso di debito.
Mi guardai in giro per scrupolo, ma come sospettavo non c’erano i miei ex-colleghi a fomentarlo. Li avrei visti, se fossero stati lì, ma sapevo che la maggior parte di noi non fanno questo genere di cose, e infatti quella era tutta farina del suo sacco.
Un vero autodidatta. E poi dicono male di noi.
Avevo ancora qualche residuo delle mie vecchie facoltà, per cui ora posso confessare che diedi una mano a quei malcapitati, dopo che si furono allontanati. So che ancora oggi i primi due vivono felici nella loro casa, e ricevono una discreta pensione integrativa, mentre la donna è riuscita a far cuocere il tizio al punto tale che quello le ha bloccato il tasso al minimo possibile, e poi le ha abbonato l’ultimo anno. E senza nemmeno andarci a letto.
Insomma, il mutuo fu concesso anche a me, e per giunta con ottime condizioni di dilazione e rateizzazione, e così divenni un soddisfatto proprietario immobiliare. Cominciavo davvero a sentirmi un cittadino come gli altri e ne ero persino orgoglioso.
Ingenuità del principiante.
Dopo qualche giorno mi recai in un ufficio postale per spedire alcune lettere che avrebbero accompagnato un ambiguo curriculum vitae verso i grandi palazzi del potere e della finanza; volevo cercarmi un lavoro. Così, avrei saldato ogni debito sociale e culturale verso la mia nuova patria.
Manco a farlo apposta, cinque minuti dopo il mio ingresso apparvero quattro tizi imbavagliati e armati fino ai denti; uno di loro era imbottito di esplosivo. Gridavano di star fermi, contro le pareti. Io ero abbastanza tranquillo, di scene così ne avevo viste tante, e fu forse per questo che i rapinatori scelsero me come ostaggio.
Si fecero scudo di me, nel vero senso della parola. All’uscita, mi beccai la pallottola silenziata di un cecchino, ma i rapinatori nemmeno se ne accorsero. E nemmeno io, sulle prime, ad esser sincero. Mi sbatterono nel loro furgone e partimmo a tutta birra; dopo pochi chilometri cambiammo automezzo, ma vollero tenermi con sé.
Capii che avevano un appuntamento.
L’auto che avevano preso, una veloce Mercedes nera, accostò all’improvviso in una piazzola nel deserto.
Dannate coincidenze.
Ad attenderci, avvolto in un impermeabile, c’era Joseph, il brav’uomo, il poliziotto della mia banca. Chissà dove era finito il suo senso dell’onore. Mi riconobbe subito, credo più dalla mia andatura zoppicante e dall’aria malferma, che dalle mie fattezze fisiche, e notai come fosse mutato il suo giudizio dalle mie onorevoli ferite, quando si rese conto che la sua banda aveva preso un ostaggio che poteva avere seccanti difficoltà di movimento.
Disse che sarebbe stato difficile trovare un ostaggio più misero e inutile, e che dovevo star sempre zitto e obbedire ai loro ordini, altrimenti mi avrebbe tolto tutte le bende e avrebbe urinato sulle mie onorevoli ferite.
Tacqui, mentre nella mia mente alcune vecchie parole abbandonate acquistavano per me il loro senso più vero: delusione, amarezza, sconforto.
Solitudine.
Joseph aveva una faccia pulita, non lo avrei mai creduto capace di tanto. E volete saperne una? Alzai lo sguardo sulle dune intorno, e vidi un ex-collega dei piani alti. Ma sì, uno di quelli vestiti di tutto punto, di un bianco sgargiante, con quel sorriso stolido da ebefrenico che rappresenta il loro marchio di fabbrica. Era il suo custode, lo capii subito. Quell’idiota pensava che prima o poi l’uomo si sarebbe redento, e secondo la sua ferrea logica, doveva proteggerlo!
Non sto a dirvi il modo in cui mi guardava, l’imbecille; avesse avuto tempo, mi avrebbe sfornato un predicozzo fresco di stagione.
A volte ripenso alla nostra storia, agli albori della cosiddetta civiltà, e vado fiero delle scelte che fece lo zio Lucio. Un taglio netto con tutta quella beata ipocrisia.
Colletti bianchi. Bleah!
Mentre ci recavamo tutti insieme nel posto in cui avrebbero nascosto la refurtiva, sentii che quella maledetta pallottola mi faceva male. Iniziavo a comprendere appieno il significato del dolore fisico; dunque stavo davvero diventando uno di loro, e presto il mio corpo avrebbe avuto un impellente bisogno di un medico.
Giungemmo al vecchio Monastero sulla montagna; era lì che avrebbero nascosto i sacchi con il denaro, i titoli al portatore, i buoni, i lingotti e tutto il resto. Immaginai che il bianco custode del capo banda avesse messo una buona parola con i frati, pur di guadagnare la sua presunta redenzione.
Avevo decisamente visto troppo.
Mentre fitte lancinanti cominciavano a turbare prepotentemente i centri nervosi che non sapevo nemmeno di aver sviluppato, fui colto dal panico. Fu uno shock improvviso: realizzai che follia stessi compiendo, ripensai alle parole dei miei amici, mi sentii un idiota suicida e dentro di me nacque e crebbe irrefrenabile il desiderio di tornare sui miei passi e fare rientro a casa.
Il desiderio dovette essere davvero intenso, perché come usavo regolarmente fare quando ero in servizio attivo, scomparvi dall’auto e mi ritrovai nel mio box-appartamento.
Ricordandomi le sue parole, rintracciai il chirurgo che mi aveva aiutato inizialmente e mi feci curare. Poi gli dissi che in effetti volevo tornare indietro, e che lo avrei pagato profumatamente per riavere tutto quel che gli avevo chiesto di togliermi solo qualche settimana prima.
Lui si mostrò sinceramente imbarazzato, e disse che avrebbe fatto del suo meglio. In realtà, aveva già venduto buona parte delle mie cose a sedicenti collezionisti dai gusti che non esitai a definire dubbi, e che rinforzarono i miei propositi di dimenticare quel luogo infame che era la società degli uomini.
Non fui così sorpreso di quel comportamento così ambiguamente umano e mi adattai a quelle che lui definì le ‘misure d’emergenza’ che intraprese. Al pensiero di possibili ritorsioni da parte mia, si prese un grosso spavento, e quindi mi assicurò che sarei potuto tornare da lui più avanti, e che nel frattempo sarebbe certamente tornato in possesso di tutto quel che avrebbe potuto.
Senza mezzi termini, gli dissi che sarebbe stato meglio per lui.
Il giorno che feci rientro Lucy mi gettò le braccia al collo, e mi disse che gli ero mancato moltissimo. Credo che si fosse innamorata di me.
Ormai ero tutto un dolore, dalle zampe alle corna, e la scongiurai di far piano, quando, non aspettandoselo, urtò contro la goffa ala di cicogna che il medico aveva dovuto impiantarmi. Misure di emergenza. Era così bianca, soffice e rigida, uno spettacolo insulso sul mio corpo che, tutto sommato, non aveva perso il suo naturale tono rosso smagliante. Il dolore alle tempie era persino più forte di prima, e le due corna erano state rabberciate alla meno peggio; un corno era orientato verso il basso e così era entrato nel mio campo visivo, ed io avevo presto sviluppato un altro tic: il mio occhio lo puntava continuamente.
Sapevo che non ero un bello spettacolo.
La voce si sparse in fretta e vidi altri amici di lunga data venire a darmi il bentornato giù al vecchio fiume all’ingresso, mentre il barcaiolo, intento al suo lavoro come sempre, se la rideva della grossa da lontano. Dovevo essere diventato la barzelletta più divertente di tutti i gironi. E non avevano ancora visto il meglio. Da quando ero entrato, non riuscendo ancora a volare, avanzavo lento, a piccoli passi, a causa di quel peso morto che la mia splendida e virilissima coda era diventata; il chirurgo l’aveva venduta in pezzi, e aveva inframmezzato ai pochi che gli erano rimasti le ossa midollari scarnificate di animali selvatici avanzati dalla cena dei suoi cani.
Insomma, trascinavo a fatica il residuo semiaddormentato della mia identità, una specie di pappa di cane scaduta e fetida che riusciva a farmi sentire indegno del posto in cui mi accingevo a rientrare.
A ciò si aggiungevano il buco che aveva lasciato quella grossa pallottola, attraverso il quale, all’altezza del mio stomaco, si sarebbe potuto contemplare il panorama alle mie spalle, e tutte le fasciature per le piccole ferite riportate inconsapevolmente durante la mia breve mortalità.
Presi ciò che restava della mia coda fra le mani, abbassai umilmente lo sguardo, e cominciai a trascinarmi verso casa.
Quasi non notai il festone che gli amici avevano messo sulla porta:

Bentornato a casa Mefy!

Oggi posso dirlo con certezza.
Il mondo degli esseri umani si era rivelato un autentico inferno.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

...e sì questo mondo non si addice nemmeno ad un povero diavolo....ma non bisogna arrendersi!!!!

AR

nanna ha detto...

Bella mescolanza di suspense e di immagini.
L'ex-collega ebefrenico è magnifico. Tratteggiato a tutto tondo con poche parole!

luana ha detto...

Avere il corggio di non chiudere gli occhi e cercare.
Qual'è il prezzo?
Alle volte nulla.
Alle volte tutto:due occhi.E non i propri.
Ma tanto non guardando avremmo fatto a meno di essere ciò che siamo e avremmo finito per perderli comunque.
Meglio un luogo infernale allora.
Come sempre vedo con i miei occhi i tuoi racconti.Magari con occhi molto diversi dai tuoi.
E' una mia abitudine,ma mi capita solo con i veri Scrittori.