mercoledì 23 dicembre 2009

Il Caso Estremo Ana Caldeira.

Questo racconto è stato scritto appositamente per partecipare alla "SFIDA", ovvero il concorso per soli finalisti delle passate edizioni del trofeo RiLL. Mi corre pertanto l'obbligo di precisare che il bando poneva il vincolo di utilizzare tre dei seguenti cinque elementi narrativi (badate bene, tre soli e non tutti e cinque):
Un Personaggio: un bibliotecario.
Un Luogo: La zona morta.
Un Oggetto: Una nota musicale.
Una Frase: “Come sempre, fecero un mucchio di storie e, come sempre, eseguirono il loro compito in metà del tempo preventivato.”
Una Parola: CE193SG
Be', devo averli utilizzati bene, perché ho vinto il Premio SFIDA ed anche il Premio Speciale Lucca Comics (dettagli:
qui). Il racconto, anche giunto secondo al concorso "Le Ali della Fantasia", è ora pubblicato nell'antologia del XV Trofeo RiLL dal titolo "Cronache da Mondi Incantati".
Il video-link a YouTube in alto a destra in questa schermata (ammesso sia attivo! Funziona a giorni alterni, ahimè) dovrebbe condurvi alla relativa premiazione svoltasi in occasione dell'ultimo salone Lucca Comics.

21 giugno 1937
L’aria era tersa, e rischiarata da una sottile e rassicurante falce di luna. I gradini della Rua da Quinta, che dalla città bassa si arrampicava sulle pendici del Chiado e proseguiva su per il Barrio Alto, risplendevano di un perlaceo chiarore, che avrebbero perso al sorgere del sole.
Ad ogni passo, gli echi dei chiassosi ritrovi e delle affollate taverne della piazza del Rossio perdevano forza in favore del rumore delle cicale e di una musica di violino che proveniva dalle case dei quartieri eleganti. L’ultima funicolare della giornata sfrecciò sferragliando in discesa verso la città bassa.
Joaquim non era mai stato in quella parte di Lisbona, almeno non per quel che era in grado di ricordare, e non era solito camminare da solo a quell’ora tarda per le vie. Lassù, poi, ci si recavano solo quelli che andavano a servire in casa dei ricchi, mentre i ricchi invece, oh, loro uscivano sempre in carrozza o in automobile, usando il viale dall’altra parte, e non passavano mai per quella stradina stretta e tortuosa.
Nei tratti più ripidi, Joaquim faticava a superare da solo i gradini più alti. Si soffermò un istante a pensare a cosa suo padre avrebbe potuto dirgli se lo avesse visto in quel momento. “Torna immediatamente a casa e va’ a letto, figliolo!”, probabilmente, e non senza un tono di collera. Eppure il ragazzo non provava alcun timore; in quel momento era come se suo padre, sua madre, e chiunque lo conoscesse, si trovassero da un’altra parte. E non a casa, ad aspettarlo, ma in un posto lontano, troppo lontano, e diverso, perché potessero preoccuparsi per lui e per dove si trovasse. Al pensiero di sua madre, Joaquim provò una stretta al cuore, e si fermò, ma poi riprese il cammino.
La forte pendenza del tratto percorso si addolcì in una lieve salita, in cui non c’era più bisogno di gradini. Dopo alcune decine di metri, appena ebbe superato il vecchio cimitero giudeo infossato fra le case che appartenevano alla nuova aristocrazia di Lisbona, Joaquim si trovò di fronte al vecchio portone al numero 39.
Provò una fitta alla pancia. Era come se conoscesse già quel posto. Il legno di cui erano formati i battenti sembrava fradicio, c’erano buchi e screziature, ed il vecchio telaio in ferro battuto pungeva per la ruggine. Joaquim aveva dodici anni, ma era un ragazzino precoce ed intelligente; si rese conto di aver già formulato quei pensieri, di aver già provato l’inquietudine sottile che lo stava assalendo, ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare quando.
Provò a spingere, ma era chiuso. Si voltò e sedette sull’unico gradino, come se aspettasse qualcosa, o qualcuno. Dopo qualche minuto si alzò in piedi e provò nuovamente. Questa volta, sotto la lieve spinta della mano il portone si aprì, ed emise un rumore che sembrò familiare. Senza indugiare oltre, il ragazzo entrò.

10 marzo 1937
Dom Leandro Caldeira si alzava presto tutte le mattine, faceva colazione con caffelatte freddo e biscotti al miele, che gli davano l’energia per affrontare la giornata, e dava un bacio ad Ana Gomes, che aveva preso in moglie tredici anni prima. Poi usciva, e accompagnava Joaquim alla scuola gesuita. La Escola Da Redencao era una istituzione pia e riservata ai giovani delle famiglie più agiate, e Dom Leandro andava fiero del fatto che suo figlio, erede unico della premiata sartoria Caldeira, potesse ricevere l’istruzione dei rampolli della più pregiata aristocrazia lisbonese.
Dom Leandro aveva ottenuto quel privilegio grazie all’intercessione di un paio di facoltosi clienti, che da quel momento in poi non solo avevano smesso di pagarlo per la sua opera sartoriale, ma avevano anche aumentato la frequenza con cui si rivolgevano alla bottega per usufruire dei suoi pregevoli servizi. Alla Escola Da Redencao non mancavano alunni provenienti da famiglie povere, pochissimi per la verità, ammessi in ossequio allo spirito caritatevole che pur andava salvaguardato in una simile istituzione; ma, benché non navigasse nell’oro, Dom Leandro non aveva voluto seguire quella strada, perché l’abbinamento delle due circostanze, ovvero confezionare abiti per i nobili e avere un figlio che riceveva (di diritto acquisito, e non per carità concessa) l’istruzione di un nobile, lo faceva sentire più vicino alla nobiltà. Di quel passo, pensava, forse un giorno Joaquim gli avrebbe dato un nipote appartenente a pieno titolo all’aristocrazia del Nuovo Regno, e lui sarebbe stato ricordato come l’iniziatore della casta. Un vecchio duca. Si divertiva a immaginare la sua immagine effigiata all’interno di una cornice in legno dorato, e appesa sulla curva dello scalone della casa patrizia in cui avrebbe dimorato la sua progenie. E gli ospiti voltarsi, annuire, rendere omaggio.
Dal canto suo, Joaquim era felice di poter studiare la storia, le scienze, e soprattutto la lingua portoghese. Alla Escola da Redencao a Joaquim venivano anche impartite lezioni di castigliano e francese, lingue che sentiva abbastanza simili alla propria da poter sottrarre tempo al loro studio per darsi alla sua passione.
Già da qualche anno, infatti, Joaquim aveva dedicato la propria esistenza a un demone che tanto gli ardeva dentro che avrebbe riempito di parole anche le lenzuola del letto o, magari, i muri del quartiere. Così, pensava, forse qualcun altro avrebbe letto le sue storie, oltre a sua madre. Ma nessun demonio è tanto generoso, e il prezzo da pagare per le passioni dello spirito è sempre alto. Questo, Joaquim doveva ancora scoprirlo.
Dopo il bacio del piccolo davanti all’ingresso del palazzo della scuola, Leandro voltò le spalle, puntò in alto con il naso e procedette verso l’uscita del cortile, sotto gli sguardi degli altri genitori (ma più spesso, dei loro inservienti) e dei rispettivi figlioli. Sorrise e inchinò il capo per un istante solamente, alla vista della contessa Rodrigues, che dalla sua Daimler salutava la primogenita. Poi voltò l’angolo e iniziò a correre verso la sartoria. Era tardi, e lui doveva tirare su la saracinesca.

21 giugno 1937
Un colpo d’aria fredda chiuse il portone e mosse le fiammelle che illuminavano a malapena l’interno dello strano posto. Era molto buio, ma gli occhi di Joaquim, abituati alla notte stellata, non faticarono ad adattarsi. L’aria sapeva di legno marcio e di bagnato, come se un temporale fosse appena finito; eppure là fuori era stata una calda giornata d’estate.
In alcuni momenti Joaquim ebbe di nuovo l’impressione di conoscere quel luogo e sentirsi a suo agio, mentre in altri fu sul punto di gridare, girare sui tacchi e scappar via. Da quell’ingresso partiva un unico corridoio. Una serie ordinata di candele poste in terra sembravano indicare un percorso. Le fiammelle oscillavano pigramente, e a Joaquim ricordarono un cimitero in piena notte.
Il ragazzo inspirò a fondo, per accumulare coraggio e ossigeno; in quel posto gli sarebbero serviti entrambi. Raccolse il più vicino piattino con la candela e mosse i primi passi. Alla vista della propria ombra in movimento sul muro sussultò, ma poi si sentì uno sciocco; sconfisse la paura pensando a sua madre, e si lasciò accompagnare dalle mutevoli ombre del suo cammino. Finalmente sentì il cuore rallentare, e il sudore alla schiena asciugarsi.
Dal corridoio si staccavano dei rami laterali, posti a intervalli regolari; Joaquim ne scelse uno che sembrava appena più illuminato degli altri, e proseguì.
Le pareti straripavano di libri. I muri erano pieni di scaffali, e sugli scaffali stavano stipati volumi, tomi di ogni grandezza, aspetto e colore. Joaquim si chiese come fosse possibile arrivare a quelli più in alto, perché le librerie raggiungevano il soffitto, e il soffitto si trovava almeno a quattro, forse anche cinque metri dal pavimento. Dopo l’iniziale diffidenza iniziò a consultarne alcuni negli scaffali alla sua portata, e vide che erano scritti in decine, anzi, centinaia di lingue diverse. Vi erano libri scritti nelle lingue dell’occidente e in quelle del vicino e lontano oriente, parole d’alfabeto latino, greco e dell’Europa slava; lingue del freddo Nord e dialetti del Sud del mondo, idiomi africani, arabi, e segni dei quali non avrebbe saputo indovinare nemmeno il continente d’origine.
Che fossero linee intrecciate o parole comprensibili, Joaquim ne fu rapito. Dopo vani, stanze, cripte e scale, e ancora corridoi ridondanti di libri, immaginò che in quel posto ci dovevano essere milioni, o forse, miliardi di volumi. Pensò di essere finito nella biblioteca più grande del mondo.
Immerso nell’oceano di carta, immagini e parole, Joaquim vide deformarsi l’ombra che la propria sagoma proiettava sulla parete di libri. Trattenne il fiato, e udì un respiro veloce e pesante. Era vicino. Gli sembrò che un pezzo di ghiaccio gli fosse stato messo sulla nuca.

30 marzo 1937
La mente di Joaquim partoriva personaggi fantastici, folli e mostruosi, e la sua prosa istillava un misto di stupore e paura. Un giorno un frate impiccione ne aveva lette alcune righe e aveva raccomandato a Dom Leandro di tenere d’occhio il figlio, perché, gli aveva detto, le tentazioni del paganesimo andavano estirpate alla radice.
Quasi ogni giorno Joaquim implorava il suo demone. Sussurrando, lo pregava di farlo diventare uno scrittore abile, e famoso, come Edgar Allan Poe, l’americano, del quale aveva letto tutto quel che aveva potuto, per lo più in francese, perché ben poco era stato tradotto nella sua lingua. Tremava, al pensiero di saper inventare una storia di quelle che vedeva al cinematografo con il papà; la sua preferita era quella sul terribile conte Dracula. Joaquim amava i suoi denti, il suo sguardo cupo e la sua voce, che si spezzava nelle tenebre.
Ogni volta che finiva una storia, il piccolo correva a farla leggere a sua madre, che in genere rimaneva spaventata dalla sua fervida fantasia, ma non mancava mai di rincuorarlo.
“Non smettere, figlio mio. Per nulla al mondo.”
Un mercoledì, Joaquim tornò dalla scuola con una storia che aveva scritto di nascosto durante la messa, acquattandosi in fondo alla navata laterale nel confessionale di frate Timòteo (che era vecchio e spesso non scendeva a confessare i fedeli). Ma appena fu entrato in casa, Dom Leandro gli strappò i fogli di mano e gli disse : “Va da tua madre, e tienile compagnia. E non farle prendere nessuno spavento, per oggi.”
Joaquim capì che suo padre aveva pianto. Il ragazzo lasciò cadere i suoi fogli, salì per le scale, e si affacciò alla porta. Ana Gomes Caldeira era stesa sul letto, e il dottore, che le aveva appena misurato la febbre, esibiva un’aria sconsolata.

21 giugno 1937
Joaquim si voltò con la lentezza con cui la luna si muoveva nel cielo di quella notte.
Il ragazzo non sarebbe stato capace di dire che cosa vide, e forse per questo emise un grido stridulo balzando all’indietro e ricevendo una gran botta in testa, quando la sua nuca colpì la libreria.
Si vide in trappola, bloccato fra un mostro e un muro nelle viscere di Lisbona. La creatura che gli si era parata dinnanzi, una specie di scimmione infernale la cui statura era almeno due volte e mezzo la sua, emise a sua volta un verso a metà fra un rantolo e un barrito, e lasciò cadere in terra un candelabro da quella che, pur nella confusione, sembrò a Joaquim una zampa pelosa dalle dita provviste di artigli. Il ragazzo ebbe l’impressione che anche la bestia gigante avesse paura di lui; continuava a rantolare e tentava di coprirsi il volto con le zampe.
“Adelaide!” sentì gridare alle spalle del mostro. “Adelaide, con chi stai parlando? Spostati, cara, dannazione!”
A quel richiamo la bestia mugugnò e avanzò di qualche passo. Joaquim vide che la sua mole ostruiva il corridoio quasi per intero.
Al posto ove prima si trovava la creatura, stava ora ritto un ometto basso, dai folti capelli bianchi, con il mento puntuto e gli occhi di fuoco.
“Un ospite...” disse con voce rauca e sibilante, e con un tono a un tempo compiaciuto e indignato.
“Non dimentichiamo le buone maniere, Adelaide. Hai già dato il benvenuto al nostro piccolo visitatore, immagino. Da dove sei entrato, ragazzo mio?” il suo tono si era fatto più morbido.
“Da... dall’ingresso, nella strada...” rispose Joaquim ancora tremante.
“Intendo dire, da quale città?”
Il ragazzo era troppo confuso dalla situazione, e dalla domanda, per ordinare i pensieri e riuscire a rispondere.
Fissando Joaquim dritto nei suoi occhi ancora pieni di terrore, il vecchio riprese a rivolgersi al mostro.
“Adelaide! Da dove arriva il nostro piccolo amico?” gridò.
“Muu-urgh-mu-aah. Arragh. Muhagan!”
“Che cosa?” replicò il bibliotecario, strillando la sua rabbia. “E chi è, di grazia, la scellerata tra voi che ha dimenticato aperta la Porta dei Sogni? Un mese senza carne per la colpevole!”

15 maggio 1937
Ana Gomes Caldeira non si muoveva dal letto da ormai più di un mese. Joaquim e suo padre si avvicendavano nella veglia, perché il dottore, che non aveva ancora fatto una diagnosi precisa, si era raccomandato che non la lasciassero mai sola. Ogni tanto la vecchia Bernadete, che abitava di fronte, dava una mano alla famiglia, ma non più di tanto, perché anche lei aveva una casa da mandare avanti.
Il ragazzo andava a scuola quando poteva, ma anche lì continuava a pensare a sua madre. Gli affari alla sartoria andavano male, perché Dom Leandro non aveva più tempo, né voglia, di star dietro ai capricci della ricca clientela.

21 giugno 1937
“Signore” disse Joaquim con voce tremante “io...”
“Aspetta, figliolo. Parlerai dopo. Ora bisogna chiudere quella maledetta Porta dei Sogni, o fra breve ne verranno altri come te. Sognatori. Puah. Adelaide! Andiamo.”
Il mostro si mosse, e zoppicando il bibliotecario lo seguì.
“Vieni” intimò poi questi a Joaquim.
“Da dove hai detto che arrivi?”
Questa volta il ragazzo trovò la forza di rispondere: “Da Lisbona, signore. E... io non sto sognando, signore. Almeno, non mi pare.”
“Ah” rispose il vecchio senza mostrare molto interesse.
“Signore, potrebbe dirmi dove ci troviamo?”
“Dove? Figliolo, come diavolo potrei risponderti? Non saprei dirtelo. Sono solo un bibliotecario, io.”
“Questa... è una biblioteca?”
“E cos’altro potrebbe essere? Non vedo prosciutti, né vino.”
Il vecchio esplose in una roboante risata.
Joaquim, che iniziava a calmarsi, allungò un braccio per prendere un libro.
“Altolà!”, gli intimò il bibliotecario. “Non ti è permesso infilare il tuo nasino immacolato nelle storie degli altri, è chiaro? Per oggi mi pare che tu abbia visto fin troppo” aggiunse. “E mi auguro che tu non abbia sbirciato fra i libri del tuo paese... la Spagna” concluse con tono indagatore.
“Il Portogallo” lo corresse il ragazzo.
“Sì, sì, fa lo stesso. È tutto uguale, là fuori. Uomini. Puah.”
La strana comitiva proseguì il suo cammino, facendo ritorno nel corridoio principale, che il vecchio chiamava la via maestra. Ogni tanto il bibliotecario si rivolgeva ad Adelaide, e quella rispondeva con i suoi versi gutturali. Scoccando rapide occhiate a destra e a sinistra, Joaquim vide in lontananza altri di quei mostri, che sembravano indaffarati a tenere ordinate le infinite librerie.
Giunsero in una sala in cui Joaquim contemplò ammirato una lunga fila di persone, ordinata e silenziosa. Sembrava che fossero tutti in attesa di qualcosa. Vi erano uomini, donne, vecchi e bambini, vestiti in modi diversi, come se provenissero da tutti i luoghi del mondo.
“...e da ogni epoca” gli disse il vecchio, completando il pensiero del ragazzo. Guardando verso il fondo della fila, Joaquim non riuscì a scorgerne la fine.
Le storie degli altri. Joaquim non smetteva di rimuginare sulle parole del bibliotecario.
Al culmine di quella coda silenziosa e infinita di uomini e donne, si trovava una porta.
“E quella, figliolo” gli disse il vecchio anticipando la sua domanda “è la Porta d’accesso alla Zona Morta. E non ti venga di chiedermi cosa ci sia oltre. Sono solo un bibliotecario, io.”

20 giugno 1937
Frate Timoteo entrò di corsa nell’aula interrompendo la lezione; Joaquim doveva correre a casa.
Quando fu entrato nella stanza di sua madre, il piccolo vide il dottore ai piedi del letto, con gli occhi stanchi e la bocca piegata. Dom Leandro era seduto vicino a lei, singhiozzava e le teneva la mano. Un prete impugnava una boccetta di olio degli infermi in una mano e un crocifisso nell’altra. Joaquim gli scoccò uno sguardo carico d’odio.
Ana Gomes Caldeira vide il ragazzo e sussurrò: “Piccolo mio... siedi qui, vicino a me, e raccontami una storia.”
Joaquim decise di comportarsi da uomo, si asciugò il viso e obbedì.
Alla sera, sua madre era ancora in vita. Joaquim si addormentò spossato, affogando fra le proprie lacrime.

21 giugno 1975 (ovvero, trentotto anni dopo)
“Sono... trentasei escudos, signore” disse l’uomo al volante.
L’ingegner Joaquim Caldeira pagò e scese dal taxi, comprò un mazzo di tulipani freschi e si incamminò verso l’entrata del Cimitero Dos Prazeres. Era un giornata piena di sole, e l’aria di Lisbona era tersa e rischiarata da un tiepido sole d’inizio estate. Una fresca brezza risaliva dalla baia del Tago e gli muoveva i capelli.
Dopo un breve sentiero l’uomo raggiunse la tomba ove si era recato in ciascuno dei precedenti sette anniversari. Guardò la foto piena di allegria che aveva scelto per la lapide e lesse l’epitaffio ad alta voce e con una nota di orgoglio.

ANA CALDEIRA GOMES
Madre generosa e felice.
Evora, 14 marzo 1892 - Lisbona, 21 giugno 1967

I fiori erano freschi; grazie alle sue mance, Susanita, la custode, faceva un buon lavoro. Eppure, vicino al sepolcro, Joaquim notò tracce di strane impronte, e osservò quanto fossero grandi. Vicino ad esse, una corona rispettosamente posta su un lato; i fiori erano freschi, e mettevano gioia. Si abbassò e lesse la dedica.

Ad Ana, C.E. 193, S.G.

Fu un tuffo in un altro mondo, un mondo in equilibrio precario, formato da brandelli del suo passato, pezzi informi delle fantasiose storie che aveva smesso di scrivere, e sogni delle sue notti d’infanzia. Le immagini erano confuse, ma gli sembrò d’un tratto di poter ricomporre tutto con sufficiente certezza. Era stato in una notte d’inizio estate di trentotto anni prima. Ricordò vividi occhi di fuoco, e bestie giganti che popolavano i suoi sogni. Bestie femmine. E libri, milioni, miliardi di libri... Provò un brivido, si inginocchiò sulla tomba e si lasciò andare alla memoria di sé. Tutto era vago, e confuso, ma ad un certo punto la nebbia iniziò a diradarsi, lasciando lacrime di brina sul suo volto.

21 giugno 1937
Il vecchio bibliotecario mi aveva proibito di toccare i suoi libri. Disse che stavo sognando, che ero entrato lì dalla Porta dei Sogni che una dei troll (tutte femmine, e non mi permetteva di chiedergli perché) aveva lasciato aperta per errore, e che non sarei dovuto essere lì; ma disse anche che, se ci ero arrivato, era per qualche ragione personale che a lui non interessava. Aggiunse di non sapere se dietro l’altra Porta, quella della Zona Morta, ci fosse il nulla, il Paradiso o l’Inferno, l’Ade o il Valhalla. Lui era solo un bibliotecario, continuava a ripetere, e non era affar suo. Tutte quelle persone, in quella fila senza inizio né fine, avevano smesso di camminare nel mondo, perché il loro libro era stato letto fino all’ultima riga dell’epilogo. Io invece, ero solo un intruso, e presto mi sarei svegliato e non avrei ricordato più nulla. Dopo tutto, lui era solo un sogno. Il mio sogno.
Smise di occuparsi di me e, tirandosi dietro Adelaide, mi lasciò solo. Mentre si allontanava, mi parve di sentirlo ridere.
Ma io non volli credergli. Non del tutto, almeno. Checché ne dicessero i frati, sapevo che il destino di un uomo è nelle sue mani. Solo chi vive la propria vita ha il diritto di scriverne i capitoli. Ma forse, a volte, si può fare un’eccezione.
Se davvero stavo sognando, be', allora non ne volevo sapere di svegliarmi. Ormai avevo capito perché ero lì; ne fui certo, con la stessa forza con cui il sole sorge ogni mattino e scalda il mondo.
Su ciascun libro avevo visto un nome, un cognome, ed uno strano codice fatto di lettere e numeri.
Mi misi all’opera; dopo qualche ricerca trovai un’intera parete di libri del mio paese e poi, fra questi, quelli che contenevano le vite delle persone che conoscevo, e dei loro amici, dei loro parenti, degli amici degli amici e dei parenti e dei parenti. Su uno dei tomi vidi il mio nome! Ah, potete credermi, fu doloroso astenersi dal curiosare; ero certo che non avrei avuto più di una sola, eccezionale occasione, e non potevo sprecarla per un capriccio.
Finalmente trovai il libro che, senza saperlo, nei sogni di quei giorni avevo sempre cercato.
Su una copertina rigida, rossa come la vita, era impresso a caratteri dorati il codice che la identificava:

Caso Estremo 193, Senhora Gomes
(al secolo Ana Caldeira)

Aprii il breve libro della vita di mia madre.
Alla pagina 330, la storia precipitava verso un prematuro finale di cui ho preferito dimenticare i dettagli. Le ultime righe della narrazione stavano apparendo in quel momento, davanti ai miei stessi occhi, e la parola “morte” aveva fatto la sua comparsa, nero su bianco. Cinque lettere che maledissi, come maledicevo il prete che la invocava nel nome del suo dio.
Ero o non ero uno scrittore? Ebbene, la mia occasione era giunta. Il mio demone pretendeva il dovuto, ed io non mi tirai indietro.
Scrissi una storia nuova, piena di salute, gioia e dolcezza. Liberai mio padre dalla schiavitù della sua vanagloria e regalai a mia madre una vita florida e serena. Le restituii ciò che un autore cinico e ignoto le aveva sottratto, e scrissi nello stile più limpido, cristallino e comprensibile che avessi mai usato. Chiunque avesse letto quella storia non avrebbe avuto dubbi che Ana Caldeira Gomes, alias C.E. 193 S.G., avesse ancora lunga e lieta vita davanti a sé.
Non sapevo se ce l’avevo fatta, ma giurai che se così fosse stato, avrei smesso di scrivere per tutti gli anni in cui mia madre sarebbe ancora vissuta. Quando mi svegliai al mattino successivo, non ricordavo molto di quel sogno confuso e fumoso, ma sentivo che l’odore della morte aveva lasciato la nostra casa.
Rubando trent’anni al demone della scrittura per donarli a quello della vita, avevo scritto il mio ultimo racconto, nel quale la mia sola lettrice era divenuta protagonista.
E fu l’opera migliore di Joaquim Caldeira Gomes, figlio di Dom Leandro Caldeira, sarto in Lisbona, e scrittore di un sogno durato una vita.


domenica 20 dicembre 2009

Premio “Fantastique”

Nasce un nuovo evento del fantastico. A cura del canale 132 di Sky, Fantasy, dedicato al genere, dal 19 al 21 marzo p.v. si terrà a Orvieto il 1° Fantasy Horror Award .
Benché l’evento, come del resto il network televisivo associato, siano alquanto sbilanciati sul versante horror rispetto a quello fantascientifico, comunque presente, è importante segnalare che in seno alla manifestazione si svolgeranno le premiazioni di due concorsi, uno per fumetti (Fantastic Land) e l’altro per racconti (Fantastique). La scadenza per l’invio dei manoscritti è il 20 febbraio 2010.
Ringrazio il Blog “Message in a Book” per la segnalazione di questo evento e del relativo concorso.
Segue il bando completo del concorso letterario.
1) Il Premio Letterario Fantastique
Il comitato organizzatore del I FANTASY HORROR AWARD, organizzato dalla società di produzione FunFactory e dall’Associazione Culturale Art Maco Ballet, promosso da hello Zone (canale 132 di Sky: Fantasy) e con il patrocinio del Comune di Orvieto, bandisce un Premio Letterario per racconti inediti, con fini di selezione editoriale e pubblicazione, denominato FANTASTIQUE la partecipazione al quale è aperta a tutti.
Questo bando è rivolto a tutti gli autori che desiderano partecipare al Premio.
2) Requisiti delle opere
Possono partecipare al bando le opere che soddisfino i seguenti requisiti:
• Genere: l’opera deve appartenere ai seguenti generi letterari: Horror, Fantascienza, Fantastico, Fantasy.
• Inediticità: l’opera non deve essere stato pubblicata in precedenza da un altro editore;
• Diritti: l’autore deve essere proprietario di tutti i diritti sull’opera;
• Lunghezza: l’opera deve essere lunga un minimo di 6.000 caratteri, spazi inclusi, e un massimo di 30.000 caratteri, spazi inclusi;
• Lingua: l’opera deve essere scritta in lingua italiana.
• Scadenza: l’opera deve essere inviata entro e non oltre il 20 febbraio 2010.
3) Come inviare l’opera
Il materiale dovrà essere spedito via form (http://www.fantasyhorroraward.com/?page_id=325) in un unico allegato in formato .rtf, .rar, .zip, .doc. e non dovrà superare i 5 MB come dimensione o via posta a:
FANTASY HORROR AWARD
c/o Moving - Events&Communication
Via degli Eucalipti, 47/a - 05019 Orvieto (TR) Inoltre, per ottenere la registrazione del progetto, è necessario compilare il form.
Dati Personali
I dati personali devono essere inseriti nell'apposito form. in un foglio a parte, in caso di invio postale; inserire i seguenti dati personali:
• nome e cognome dell’autore/autrice
• recapito postale
• indirizzo e-mail
• titolo dell’opera
• genere
• dichiarazione di inediticità, di possesso dei diritti sull’opera, e autorizzazione al trattamento dei dati personali e di presa visione del bando, secondo il seguente pro-forma (da copia-incollare e completare con i propri dati):
Contestualmente all'invio dell'opera [inserire nome dell'opera], [inserire nome e cognome dell'autore] dichiara di esserne l'autore, di non averne ceduto a terzi i diritti di pubblicazione o distribuzione o altri diritti legati al copyright e di poterne disporre in piena e assoluta libertà. L'autore autorizza inoltre il comitato organizzatore del concorso al trattamento dei propri dati personali, ai sensi del D.L.196/2003 e successive modifiche e integrazioni, limitatamente agli scopi del concorso in oggetto. L’autore dichiara altresì di aver preso visione integrale del bando di concorso e di accettarne ogni sua parte”.
Il documento contenente l’opera dev’essere invece anonimo.
4) Conferma
In un tempo ragionevole sarà inviata una email in risposta per confermare l’avvenuta ricezione e la conformità dell’allegato ai requisiti, come espressi ai punti 2, 3 e 4 del presente bando.
5) Valutazione e risultati
Le opere saranno valutate da una commissione di lettura composta da 5 editor di diverse case editrici e presieduta da Dario Gulli. Le valutazioni e i risultati sono definitive e inappellabili.
I risultati verranno comunicati e resi noti entro il 15 marzo 2010 via e-mail ai vincitori, e il risultato pubblicato sul sito Web http://www.fantasyhorroraward.com/
I 10 finalisti avranno accesso alla serata finale del festival gratuitamente e un pacco omaggio contente DVD, libri e fumetti.
6) Premiazione
La premiazione avverrà il giorno 21 marzo a Orvieto durante il I Fantasy Horror Award. Il premio consisterà in:
-Una targa consegnata durante la serata;
-Nella pubblicazione cartacea del racconto vincitore in un’antologia con autori affermati italiani e stranieri e con distribuzione nazionale;
-Promozione del libro attraverso gli uffici stampa del Fantasy Horror Award: il libro verrà presentato ufficialmente in occasione della II edizione del Fantasy Horror Award, nel 2011;
-Pernottamento gratuito e accesso a tutte le sezione del festival;
-Pacco omaggio contenente DVD, libri, fumetti.
7) Quote di partecipazione
La quota di partecipazione è pari a 20 Euro.
Ogni autore potrà, pagando tale quota, partecipare con fino a un massimo di 3 racconti.
La quota di 20 Euro è indipendente dal numero di racconti inviati: si paga 20 Euro per inviare un racconto, così come si paga 20 Euro per inviarne due o tre.
Gli autori potranno corrispondere la quota tramite
a) Paypal
inviando il pagamento a info@fantasyhorroraward.com
b) Bonifico bancario
intestando il versamento a:
Ass.ne Culturale
ART MACO BALLET
Via M.Buonarroti, 3
05100 Terni
IBAN: it15z0638014400000030024809
Indicando la causale “Opera per il premio Fantastique, [Nome Cognome]”.
Allegando se possibile all’email di iscrizione ricevuta del bonifico.

lunedì 7 dicembre 2009

Il suono del tempo.

Con questo racconto in tre capitoli, uno dei miei cui tengo di più, ho vinto il primo premio del concorso "Pensieri in versi" nel 2009, e ottenuto una menzione in occasione del premio Città di Salerno.

I.

Quel giorno mi ero svegliata sotto l’effetto dei vizi di cui amo essere prigioniera.
La sera prima la cena era stata superba, il vino impareggiabile, per non dire di tutto quel che era venuto dopo. Marco era davvero uno che ci sapeva fare con le donne, ma nonostante questo io me ne ero andata via nel cuore della notte, sgattaiolando via dal suo appartamento, a ritrovare la mia libertà di sempre.
E dire che in quelle ore avrei davvero voluto fermare il tempo. Soprattutto in alcuni particolari momenti. Strano, ora che ci penso, era in effetti quello che mi pare di aver provato con lui, quella sera: il tempo con quell’uomo sembrava potersi fermare davvero, e sempre all’istante giusto, naturalmente.
Avevo usato la sua auto per tornare a casa, e questo era fra l’altro un ottimo pretesto per poterlo rivedere il giorno dopo. Non avrei nemmeno dovuto proporglielo; sapevo che lui avrebbe certamente sentito una gran mancanza, se non di me, della sua splendida sportiva decappottabile.
Sarebbe stato bello rimanere avvolta fra le sue lenzuola e risvegliarsi accanto a lui al mattino seguente. Ma io volevo che quella storia andasse avanti, e quindi non potevo permettere al tempo di smettere di scorrere troppo a lungo. E’ bello fermare il flusso delle cose, ma solo per alcuni istanti. Poi il movimento della vita deve ripartire.
Che il tempo esista, fuori di noi, è qualcosa di cui ho sempre dubitato, ma con la stessa forza sono sempre stata convinta che esso esista dentro l’essere umano, e ne scandisca ogni movimento, ogni idea, ogni sogno.
Era il 21 aprile 2009. Mi pare che fosse una domenica, ed era la mattina seguente la mia notte con Marco, l’italiano che lavorava nel mio ufficio. Ironia della sorte, lui era un appassionato collezionista di orologi.
Mi ero svegliata spontaneamente, felice di non essere molestata dalla radio, che in qualunque altro giorno, alle sette in punto, mi avrebbe ricordato che la mia vita dipendeva dallo stipendio che veniva versato il giorno ventisette di ogni mese.
O forse era il ventisei? A quei tempi dubitavo di quanti giorni fosse composto un mese, o quanti fossero i mesi dell’anno; è difficile mantenere la propria identità in un mondo che non ti corrisponde più. Inizi a dubitare anche della tua sanità. Inizi a chiederti se sei tu quella sbagliata.
Mi guardai allo specchio. Ciò che vidi mi fece dubitare dei gusti di Marco in fatto di donne; le nottate a base di vino italiano hanno sempre questo effetto su di me, a parte tutto il resto.
Quella mattina a Londra nevicava. La mia casa nel West End era avvolta da un soffice manto freddo, e mi diedi da fare per accendere il camino. Quasi rimpiansi di non essere rimasta nell’appartamento di Marco, quando mi tornò in mente che la sua auto era nel mio vialetto e lui avrebbe trovato il modo per venire a riprendersela.
Speravo che mi chiamasse, e che lo facesse presto. Io non lo avrei mai fatto. Chissà cosa sarebbe successo, se invece avessi messo da parte il mio stupido orgoglio. Chissà se quella mattina ero ancora in tempo per fermare tutto. In realtà, ancora oggi non saprei dire cosa sia realmente accaduto.
Marco non chiamò, ed io trascorsi una gelida domenica in casa, sola, accanto ad un telefono che non squillò per l’intera giornata. Quasi mi sembrò che il mondo si fosse fermato; qualcuno aveva messo in pausa lo scorrere del film dell’esistenza. La neve continuava a cadere, ne più né meno di prima, il cielo iniziava a incupirsi, ed io con esso. Accesi tutte le candele che avevo in casa, e in quell’atmosfera di tenebra, al tremolare di decine di fiammelle mi sentii quasi obbligata a cercare un mio calore interno.
Dovetti in qualche modo trovarlo, perché mi addormentai sulle pagine di un romanzo che non riuscivo a finire, e che non ricordavo nemmeno di aver iniziato. Era una strana storia fantastica che aveva per protagonista una ragazzina. Ero arrivata a un punto cardine, la ragazzina era prigioniera nella casa del suo salvatore, assediata da persone malvagie vestite di grigio. Ebbi la netta sensazione di sapere già cosa succedesse in seguito, e perdendo interesse per la storia mi assopii davanti al camino scoppiettante.
Mi svegliai che il sole era già alto, e mi resi conto che doveva essere tardissimo. Mi precipitai sotto la doccia, bevvi un caffè freddo avanzato dal giorno precedente e senza esitare presi le chiavi dell’auto di Marco; avrei fatto molto più in fretta che in treno, e poi così avrei potuto restituirgli la BMW, oltre a comunicargli che fra noi due era finita per sempre. Quell’idiota doveva aver dormito tutto il giorno per arrivare a non preoccuparsi non solo per la mia fuga, ma anche (e soprattutto) per l’assenza del suo amato bolide. Era meglio essere chiare, e liberarsi in fretta di uno così, prima che fosse troppo tardi.
Andando in ufficio fui presa dalla voglia di tirargli un brutto scherzo e fingere di non sapere nulla dell’auto; avrebbe pensato che gliel’avessero rubata e sarebbe andato su tutte le furie. Sì, meritava uno scherzo del genere. O forse, no; una sana indifferenza sarebbe stata una tattica migliore. Rimandai la decisione all’esatto istante in cui, di lì a poco, lo avrei incontrato.
Finalmente era smesso di nevicare. Guidando nel traffico insolitamente scarso della M4 mi resi conto che nella fretta non avevo nemmeno controllato l’ora prima di uscire di casa, e come se non bastasse avevo dimenticato il mio Tissot. Cercai l’orologio sul cruscotto della BMW, ma non riuscii a trovarlo; smanettai nervosamente sugli interruttori del computer di bordo, ma fra le informazioni non appariva mai l’ora, e nemmeno la data.
Comunque ero sicura che l’orario di entrata era scaduto da un pezzo. Era senza dubbio per quello che il traffico del lunedì mattina era così stranamente calmo; sembrava davvero che io fossi l’unica che doveva ancora recarsi al lavoro, a quell’ora. Infransi tutti i limiti di velocità ed entrai nel cortile della mia azienda, la Mindset.
Salutai Ben, la guardia, con un sorriso di circostanza, e decisi di evitare l’ascensore. Mentre salivo in gran fretta per le scale verso il terzo piano cercai il badge magnetico nella borsetta. Lo trovai, lo estrassi e con il gesto automatico che avevo ripetuto tutti i giorni lavorativi degli ultimi tre anni, senza guardare, protesi il braccio verso la posizione abituale del conta-tempo.
La mancata emissione del tranquillizzante bip d’ingresso mi bloccò. Mi voltai verso la parete, e con grande sorpresa vidi che il conta-tempo era stato rimosso. Ripensai alla gran corsa che avevo fatto per arrivare ad un orario perlomeno accettabile, e mi sentii una sciocca.
Evidentemente l’apparecchio si era guastato, e lo stavano riparando. Non ci pensai più e imboccai il corridoio, avanzando a passo svelto verso la stanza che condividevo con due colleghe. La concitazione dei miei passi era assorbita dalla morbida moquette verde. Gettai delle occhiate distratte oltre le porte che superai per arrivare in fondo -la mia stanza era praticamente dalla parte opposta rispetto alla porta d’ingresso del terzo piano- e con grande sorpresa vidi solo pochi colleghi al lavoro quella mattina. Alcuni di loro mi salutarono con una calma che trovai surreale, rispetto al ritmo frenetico che normalmente imperava fra i corridoi della Mindset. Non avevo incontrato nemmeno Marco, che in genere quando arrivavo io faceva di tutto per incrociarmi casualmente; dalla notte precedente quel ragazzo continuava a scendere verso il fondo della mia personale graduatoria in fatto di uomini.
Finalmente arrivai alla mia stanza, in cui progettavo di chiudermi tutto il giorno. La porta era chiusa, ma ebbi la sensazione che dentro non vi fosse nessuno. Perciò bussai con delicatezza ed entrai con decisione.
Solo quando fui all’interno mi accorsi della differenza rispetto a quel che era sempre avvenuto in passato: chiudendo la porta e barricandomi nella stanza non avevo interrotto alcun concerto di ovattati squilli telefonici che rappresentavano il rumore di fondo fisiologico della Mindset durante l’orario d’ufficio.
E non era tutto: le scrivanie riflettevano le chiome degli alberi del giardino di fuori, tanto erano pulite e presentabili. Lo stato di perfetto ordine della mia postazione mi sembrò irreale; mi sforzai di ricordare come l’avevo lasciata solo due giorni prima, cioè venerdì pomeriggio; ero certa di aver abbandonato alla deriva fra fax, documenti e fascicoli vari, due prominenti pile di carte su cui avrei dovuto sgobbare per tutta la settimana, per presentare la prima bozza della campagna entro il venerdì successivo; era proprio quella la ragione per cui avevo fretta di mettermi a lavorare. Detesto essere in ritardo proprio quando sono sotto data di consegna; non sopporto lo stress, fa male al mio lavoro.
Oltre al mio computer, anche quello di Claire sembrava spento; l’unico monitor acceso era quello di Corinne, che doveva essersi allontanata.
Premetti il pulsante e durante l’accensione e il collegamento al sistema mi mossi verso la macchinetta del caffè, secondo il rito. In realtà la regola voleva che Corinne, Claire ed io consumassimo assieme il primo caffè della settimana, ma probabilmente quella che aveva violato i patti quel giorno ero stata proprio io. Mentre sorseggiavo il mio espresso, che avevo preparato rigorosamente in stile italiano nonostante tutto, pensai a quanto era strano che non fossi ancora riuscita a sapere che diavolo di ora fosse. Né la mia curiosità fu soddisfatta quando mi sedetti davanti al computer, perché nell’angolino in basso a destra del monitor, dove ero convinta che avrei visto l’orologio, c’era invece una simpatica faccina che alternava un sorriso e una smorfia al ritmo di un conta-secondi, o almeno così mi parve. Qualcuno doveva essersi divertito a smanettare sul mio PC durante il fine settimana. No, era da escludere; c’era una password personale, che fra l’altro avevo cambiato io stessa prima di uscire la sera di venerdì. Mi rassegnai e smisi di pensarci.
Mi immersi nel lavoro, dopo aver ritrovato le mie carte perfettamente ordinate nell’armadio, indecisa se ringraziare un anonimo benefattore o infuriarmi perché qualcuno aveva messo le mani fra i miei documenti.
Dopo quella che mi parve essere più o meno un’ora, di Corinne non c’era traccia. Tenuto conto del ritardo con cui ero arrivata in ufficio e del languore che già avvertivo, ipotizzai che la pausa stesse per iniziare. Attesi con fiducia gli ultimi istanti che presumibilmente mi separavano dal delicato avviso acustico che avrebbe concesso cinquanta minuti di pausa pranzo a tutti i dipendenti stipendiati a tempo, dei quali facevo orgogliosamente parte. Dopo aver continuato a lavorare ancora per un po’, mi stupii che non si udisse alcunché.
Secondo il mio stomaco eravamo nel pieno della pausa, e senza indugiare oltre aprii la porta e mi affacciai alla stanza accanto, dove vidi John molto preso dal gioco a carte con il PC.
-Oops!- disse con tono scherzoso chiudendo la schermata quando mi vide.
-John, niente pausa?
Dall’espressione più vacua del solito intuii che non aveva afferrato.
-Sai che ore sono?- aggiunsi quindi.
-Che… ore sono?- fu tutto quel che seppe replicare, nemmeno gli avessi chiesto un prestito senza interessi.
-Ore, tempo, che ora è, John?
-Uhm, proprio non ti capisco, Lola.
-Non hai fame?
-Io? No, perché?
-Perché è ora di pranzo, John?
-Ah, il pranzo, sì. Be’, io ho mangiato qualcosa.- così dicendo aprì un cassetto -Vuoi un po’ del mio panino, Lola?
Non gli risposi, e mi sentii una sciocca. Dopo quell’inutile corsa in ufficio avevo già bruciato probabilmente la metà della mia pausa pranzo. Mi diressi verso l’uscita, con l’intenzione di recarmi al bar al secondo piano. Appena entrata, vidi Corinne seduta a un tavolo, da sola, e mi diressi verso di lei.
-Corinne!- dove sei stata tutta la mattina?
La mia collega mi guardò con un’espressione che mi ricordò quella che John aveva messo qualche istante prima.
-Ciao, Lola. Sono… qui, a prendere un caffè.
-Non hai pranzato?
-Io? Sì, ho mangiato qualcosa, perché?
-No, nulla. E’ solo che il tuo monitor era acceso, e allora ho pensato che saresti rientrata in stanza, e ti ho aspettata…
-Sono qui.
-Sei qui, da quanto?
Corinne non rispose. Sollevò un sopracciglio in segno di sorpresa, guardandomi come se avessi detto qualcosa che l’aveva colpita, ma senza poterla afferrare.
-Da quanto… cosa?
-Da quanto tempo, Corinne?
-Il tempo? Non saprei, oggi c’è il sole, Lola.- si voltò verso la finestra e indicò il cielo. L’espressione di sorpresa di Corinne era svanita, sciolta in una fatua tranquillità.
Pensai che anche quella domenica non avesse saputo resistere alla tentazione e avesse fumato spinelli a man bassa con quell’idiota del suo ragazzo, Joseph. Decisi di dedicarmi a quel che avevo colpevolmente trascurato fino a quel momento, vale a dire le legittime esigenze del mio stomaco. Mi voltai verso il bancone e dopo aver adocchiato l’insalata mista più rispondente alla definizione mi accinsi a ordinare. Lo sguardo scivolò involontariamente verso il punto dove normalmente era appeso il grande orologio circolare a cifre romane, sulla parete di fondo dietro al bancone.
-Dov’è il padellone, Jeff?- chiesi al cassiere.
-Cosa dici, Lola? Vuoi una padella dalla cucina? Per farne cosa, scusami?
-L’orologio, Jeff. Il tuo mitico orologio a cifre romane, quello su cui ti ho insegnato io a leggere i numeri che indicano le ore. Il tuo orologio-padellone, quello che hai comperato in Italia e messo lì almeno due anni fa!
Gli avessi chiesto di poter mangiare un cavallo vivo con contorno di stampante laser a colori, sarebbe stato più collaborativo. Sembrava che anche Jeff fosse stato contagiato dall’epidemia di idiozia che aveva soggiogato le migliori (non che ne fossi certa) menti della Mindset.
Finalmente fui punta dal tarlo del dubbio; strattonai il mio vicino, un collega in doppio petto mai visto prima, e mi impossessai del suo polso destro, e poi del sinistro, ma non vi trovai nulla.
-Che maniere!- mi rimproverò, sistemandosi i polsini che erano imperdonabilmente rientrati sotto le maniche della giacca. Feci inutilmente lo stesso con altri due che gli stavano dietro, poi iniziai a chiedere a tutti, uomini, donne, uno dopo l’altro, se potessero essere così gentili da dirmi che ora fosse, ma purtroppo non ci fu nemmeno uno in cui quella semplice domanda provocasse qualcosa di simile a ciò che si chiama una “risposta”. Tutti reagivano con richieste di chiarimento, esclamazioni indignate, espressioni di stupore, quando non di sincero rammarico per la mia condizione di palese e penosa confusione. Qualcuno arrivò a invocare l’intervento di un medico.
Trascorsi anche, inutilmente, circa dieci minuti a complimentarmi per l’ottima riuscita dello scherzo, pregando tutti di tornare alla normalità.
Poi finalmente mi convinsi che era quella la loro normalità.
Senza dare troppe spiegazioni mi precipitai verso l’uscita e raggiunsi Andy, la guardia in servizio al controllo di sicurezza, che aveva appena sostituito Ben.
Lo interruppi mentre parlava al telefono, e lui mi vide così agitata che riattaccò sbrigativamente.
-A che ora hai iniziato il turno, Andy?- gli domandai in affanno.
Andy mi fissò senza fiatare, come se attendesse da me altre parole, che non avevo però intenzione di offrirgli. Doveva accontentarsi di quella semplice domanda, e pretendevo un’altrettanto semplice risposta.
-Andy, ti ho chiesto,- presi fiato -a CHE ORA hai iniziato il tuo turno.
Avevo gridato.
Andy era un giovane ragazzo indiano di poche parole, che amava le cose semplici; il suo vero nome era Jamalaipindiur, e si faceva chiamare Andy al solo scopo di evitare complicazioni. Era evidente che non aveva una risposta soddisfacente, e quindi, semplicemente, taceva.
-E dov’è il segna-tempo?- aggiunsi caritatevolmente, indicando la posizione usuale dell’apparecchio.
Andy si illuminò ed un raggio di luce si insinuò nel buio della mia angoscia.
-Oh, Lola, vuoi dire il vecchio congegno che era appeso lì? Gli operai lo hanno smontato.
-Smontato? Vuoi dire che devono ripararlo?
-Ripararlo? Ma Lola, non sappiamo nemmeno a cosa servisse; è per questo, mi hanno detto, che lo hanno tolto. Era inutile.
-Inutile. D’accordo, Andy.- mi fermai per catturare tutta l’attenzione che era in grado di concedermi, e in quell’istante con la coda dell’occhio intravidi Ben, il suo collega che aveva appena staccato, che stava accendendo la motocicletta in cortile -Ascoltami bene: quando, lo hanno tolto?
Andy tornò a tacere.
Mi lanciai oltre la porta girevole e fermai Ben mentre indossava il casco. Il motore della sua Kawasaki era già acceso e lui smanettava orgogliosamente con l’acceleratore, compiacendosi di quello sfoggio di virilità. Anche quella volta non perse l’occasione di provarci.
-Andiamo a casa tua, Lola?- mi propose sorridendo.
-Ben, piantala, subito. Ho una domanda da farti.
-Sì, cioccolatino, dimmi pure.
-Ben, come facevi a sapere che sarebbe entrato Andy a sostituirti?
-Diamine, Lola! E’ il nostro lavoro.
-Ma certo, Ben. Voglio dire, come facevi a sapere quando sarebbe arrivato?
Anche Ben si bloccò come se avessi parlato arabo. Capii che quella parola, quando, aveva la capacità di paralizzare il pensiero in qualunque interlocutore.
Ben pensò che non era aria, indossò il casco e partì con un gran rombo.
Io invece sentivo il cuore che mi batteva nella testa, e il respiro che si accorciava pericolosamente. Le tempie mi battevano come un treno in corsa e dovetti sedermi sul muretto del cortile. Guardai il cielo di quella fredda giornata; fu solo suggestione, ma le nubi, così basse, mi sembrarono ferme.
Le vaghe intuizioni che durante la mattinata erano rimaste isolate l’una dall’altra si composero in un’immagine tanto irreale quanto veritiera.
Tutti quanti avevano dimenticato cosa fosse il tempo. Tutti quanti, tranne me.

II.

Ebbi voglia di gridare.
Ebbi voglia di mettere tutti di fronte alla loro soffocante pazzia. Di aprire i loro occhi sul nulla che riempiva i loro giorni senza tempo, vuoti come un mare senz’acqua.
Avevo ormai escluso tutte le ipotesi che potevano spiegare lo scenario surreale in cui sentivo di essere precipitata.
Non era uno scherzo. Non era un incubo, ero sempre stata ben sveglia. Non avevo mai amato le droghe, e mi sforzai di ricordare se avessi preso farmaci. Esclusi anche le radiazioni o un qualche effetto ambientale tipo tempesta solare o magnetica; mi parevano stramberie inverosimili da cinematografia di ultima classe, e poi non era pensabile che io fossi l’unica a subirle.
No, non potevo che aggrapparmi alla realtà come un naufrago che stringe i denti sull’ultimo pezzo di legno rimasto a galla, pur sapendo che non serve proprio a nulla. Ma forse io avevo qualche possibilità in più di un uomo solo e morituro fra gli abissi di un oceano. Dopotutto, intorno a me c’era ancora un mondo, anche se non reputavo più di conoscerlo davvero. E poi, smemorati, ingannati o impazziti, c’erano ancora loro. Gli altri.
Degli operai avevano staccato la macchina segna-tempo dal muro dell’atrio della Mindset, e l’idea di questa semplice operazione mi dette fiducia. Poteva significare che c’era qualcuno dietro a quella che poteva dunque essere un’immensa simulazione. Qualcuno che intenzionalmente e colpevolmente aveva deciso di cancellare le tracce della verità. Una verità che, per motivi che ignoravo, solo io ricordavo ancora.
Tornai alla BMW di Marco e misi in moto.
Dovevo cercare i segni dell’esistenza del tempo. Se qualcuno aveva davvero fermato il suo scorrere, solo due giorni prima (tale era il mio ricordo, ma quanto poteva valere ormai?), poteva aver già distrutto tutto ciò che lo misurava e tutto ciò che da esso dipendeva?
Sperai di no. Distruggere il tempo richiedeva tempo.
Mi sorpresi a cercare di capire quando esattamente fosse iniziato l’incubo, e il fatto che la domanda fosse ormai abbastanza priva di senso mi fece rendere conto che anche io stessa iniziavo a ragionare come tutti gli altri.
Era tranquillità, o indifferenza, la loro? Ed io, anch’io sarei diventata così serena, così vuota?
Doveva essere iniziato tutto a casa di Marco, dopo che eravamo stati insieme. Ricordavo che avevamo sentito i dodici rintocchi della mezzanotte, e ne dedussi che fino a quel momento il tempo era esistito; ricordai la mia fuga a casa nella notte, e quella sensazione di torpore che avevo vissuto il giorno dopo, quando era nevicato, e il mio addormentarmi, e quel senso di spaesamento. Sì, allora era già cominciato tutto. Poi tornai con la mente alla mattina di quello stesso giorno, che mi ostinavo a chiamare lunedì, e a quel cruscotto d’auto senza uno straccio di orologio. E a Marco, che non capivo che fine avesse fatto.
Non avevo ancora ingranato la prima; ero sommersa dai miei pensieri.
Guardai di fronte a me, dietro al volante.
Pensai che se il tempo era stato cancellato, non doveva esistere nemmeno il concetto di velocità. Potevo correre veloce con quell’auto? O pur andando forte, sarei stata io l’unica a considerare “veloce” la mia corsa? Proprio Marco quella sera aveva perso quasi un’ora a tentare di spiegarmi la differenza fra le miglia orarie britanniche e i chilometri orari europei; sorrisi, pensando come quel discorso così stupido e maschile mi potesse tornare utile.
Da quell’intuizione scaturì un brivido di speranza: vidi infatti che l’auto aveva ancora un tachimetro. Ma ad uno sguardo più attento, mi accorsi che i numeri su cui l’ago si muoveva non sembravano indicare velocità; mancava ovunque la scritta "MPH". Ricordavo bene, l’avevo vista il giorno prima. La scrivono grande e grossa, apposta per noi inglesi. Per rassicurarci di essere venuti incontro alla nostra strampalata resistenza al sistema metrico decimale.
Niente miglia orarie, niente velocità. E quindi, niente tempo.
Mi chiesi cosa diavolo misurassero allora quei numeri, e poi come fosse possibile che elementi concreti, materiali, fisici, come il cruscotto di un’automobile, il segnatempo di un ufficio, o un orologio appeso a un muro, potessero mutare o scomparire, così, da un giorno all’altro.
Come diamine poteva funzionare l’intera società, senza tenere il conto del tempo?
Partii. Il sole stava calando; mi chiesi se il fatto che arrivava la sera significasse qualcosa per gli altri. Mi chiesi se fra le parole ormai prive del loro senso, della loro cosa, ci fossero anche quelle che indicavano il giorno, la notte, l’estate, l’inverno. Mi chiesi se la gente avrebbe sentito ancora il profumo della primavera, se gli uomini si sarebbero innamorati delle donne davanti al tramonto, se i ragazzi sarebbero scappati dalle loro case per andare a spiare l’alba sul mare; mi chiesi se quell’inverno freddo, che immobilizzava la mia Londra in un’immensa scultura di ghiaccio, sarebbe durato per sempre.
Mi chiesi se quella parola, sempre, che indicava l’unica realtà temporale possibile in quel mondo paralizzato, fosse ancora un termine comprensibile.
Tornai di gran carica sulla M4. Se la velocità non esisteva, non c’era nemmeno un limite di velocità.
Schiacciai l’acceleratore a tavoletta.
Naturalmente, come avevo già notato andando in ufficio, non esisteva più nemmeno la fretta, e sull’autostrada la maggior parte dei mezzi circolanti procedevano con una calma quasi irritante.
Con mia grande sorpresa, dopo poche miglia un’auto della polizia mi affiancò e mi intimò di fermarmi. Proprio non capivo cosa avrebbero avuto da rimproverarmi, e anzi, sperai che la parola “velocità” sarebbe saltata fuori nell’immancabile ramanzina. Sarei stata felice di finire persino in prigione se così fosse stato.
Il poliziotto, un giovane che trattava il suo collega anziano come se il pivellino fosse quello, fu inflessibile; avevo infranto il limite. Esplosi in un’espressione di giubilo che si soffocò quando l’agente completò la frase: avevo infatti infranto il limite di potenza, che il loro rilevatore all’infrarosso aveva misurato. Andavo troppo forte, e non, come avrei sperato, troppo veloce.
Quel mondo impazzito senza tempo riusciva ancora a governarsi, nonostante tutto.
Ripresi il viaggio “a potenza moderata”, e mi resi conto che quella parola aveva iniziato a sostituire la vecchia, “velocità”, nei miei ragionamenti; ecco cosa significavano quei numeri sul cruscotto: erano diventati valori di potenza.
Pensai a quante decine, centinaia, migliaia di parole, dovevano aver perso l’intero corpo del loro significato, o perlomeno subito amputazioni o decapitazioni.
Il tempo era ormai solo il clima, la velocità era caduta nell’oblio, un appuntamento poteva essere nulla più che un luogo, minuti il plurale di un aggettivo di grandezza, anni, giorni e mesi erano probabilmente parole inesistenti, cui io sola continuavo a dare un valore che in un mondo simile era del tutto insignificante.
Tremai, al timore che presto o tardi avrei potuto dimenticare tutto anch’io.
Eppure non mi rassegnai; parcheggiai nel sotterraneo della stazione di Paddington e salii nell’atrio per controllare le tabulazioni delle partenze. Da lontano, in mezzo a una folla che non conosceva il fastidio della fretta, né l’ansia del ritardo, mi accorsi che, a differenza della macchina segna-tempo della Mindset, i tabelloni elettronici erano ancora al loro posto; una residua speranza mi fece così accelerare il passo, ma il mio sforzo di individuare un orario di partenza accanto ad ogni destinazione fu vano; c’era solo il numero del binario. Stavolta mi astenni dall’andare in giro a chiedere ai viaggiatori come facessero a sapere in quale momento i treni partivano; preferivo evitare di essere guardata nuovamente come un’idiota, e per giunta da perfetti sconosciuti. Pensai anche che andare all’aeroporto fosse inutile, pur chiedendomi come diavolo gli aerei potessero evitare collisioni senza l’assegnazione dei tempi di decollo e discesa.
Poi, ferma, immobile, cristallizzata in mezzo alla folla in moto tranquillo della stazione di Paddington all’ora del mai, mi venne un’idea, ma pensai subito che avrei dovuto fare attenzione nel metterla in atto.
Cercai un ragazzo in partenza, e non fu difficile trovarlo. Sguainai tutte le parti distintive del mio essere donna e mi avvicinai a lui in una densa nube di feromoni di una primavera immaginaria. Ad ogni passo, sperai che la chimica fra i sessi avesse ancora la sua cara, vecchia e piacevole valenza.
-Buongiorno,- dissi quando fui arrivata a breve distanza -posso avere il piacere di scambiare due parole con lei?
-Certamente.- rispose il ragazzo senza esitare, ma non mostrando il trasporto che avevo cercato.
-Sono una giornalista e sto lavorando ad un pezzo sui trasporti a Londra. Avrei bisogno di porle qualche domanda.
-Faccia pure.
-Lei non deve partire?
-Naturalmente, ma risponderò alle sue domande.
-Non ha fretta, dunque- buttai lì, ma nemmeno se ne accorse.
Dopo le domande più insulse che mi vennero in mente per una simile intervista, cercai di trattenerlo. Se il concetto del tempo non esisteva nel dialogo, nella mente, forse il Tempo, quello vero, esisteva comunque e la gente non se ne accorgeva più. Volevo che, ovunque dovesse recarsi, quel tizio perdesse il suo treno. Volevo scatenare l’ira di quell’uomo al fischio di partenza, sperando che l’emozione lo avrebbe portato a tradirsi in qualche modo, a fare un riferimento, anche il più insignificante, sulla necessità di aspettare il treno successivo, o magari sulla impossibilità di restare con me perché il suo treno stava per partire. Qualunque accenno, anche impreciso, vago, approssimativo, primitivo, sul concetto di tempo mi avrebbe resa felice. Ero pronta a tentare di sedurlo, e, se ciò fosse stato inutile come si preannunciava, ad assestargli il mio miglior colpo di tae kwon do, pur di evitare che partisse.
-Supponiamo che…- ripresi - che lei, ecco, continui a partecipare alla mia intervista… restando lontano dal binario.
Mi fermai. Mi resi conto che parlare evitando qualunque riferimento al tempo era quasi impossibile; dovevo continuamente scegliere le parole con estrema attenzione, una per una.
-Supponiamo insomma che lei rimanga qui.- altra pausa -E che, quindi, mentre lei è qui, il suo treno parta. Lei perderebbe il treno, giusto?
-Be’, certamente.- disse, guardandomi con sufficienza.
-La cosa le andrebbe a genio?
-Non avrebbe molta importanza.
-Perché? voglio dire, non sarebbe un problema, dover attendere… mi scusi, intendevo dire, doversi adattare a non partire quando… ecco, rassegnarsi a non partire pur avendo deciso di partire?
-Ma io partirei comunque, signorina. Al binario sette, come al solito. Se non prendessi il treno che parte, prenderei un altro treno che va nello stesso posto. Dallo stesso binario.
-Vuole dire, ehm, il treno successivo?
-Un altro treno, ecco tutto. Non quello, vede?- indicò il suo convoglio -Ma un altro treno per Brighton, sempre dal binario sette.
Il treno partì mentre parlava. Jonathan, era così che si chiamava quell’uomo, non si scompose. Io lo guardai attentamente, e lui non sembrò minimamente irritato dal fatto che per parlare con me aveva perso il suo treno. Impassibile, distaccato, atono, guardò il convoglio sfilare lentamente lungo il binario sette. Quel tizio non aveva mai avuto fretta. Non aveva orario di partenza, né di arrivo. Non poteva nemmeno sapere che giorno fosse.
Restai a fissare il suo sguardo vacuo per venti, forse trenta secondi, e quando mi voltai nuovamente verso il binario sette, vidi un altro convoglio pronto a partire, come se fosse stato sempre lì. Non mi ero nemmeno accorta che il secondo treno stesse arrivando.
Mi arresi di fronte all’evidenza: quel mondo era fermo, bloccato in una fissità estenuante, abbarbicato alle sue immobili ripetizioni. Io invece sentivo dentro di me ancora tutta la mia voglia di muovermi.
Ma Ero sola.
Stavo per congedarmi da quell’insopportabile individuo, quando un gruppo di ragazzini in corsa mi evitò per un soffio.
Le mie labbra lasciarono cadere, ormai per inerzia, un’ultima domanda, con la rassegnazione di chi sta per gettare la spugna.
-Lei ha figli?
-Sì.
-E che età… voglio dire, sono grandi?
-La femmina è molto alta, il maschio no. Perché me lo chiede?
-Cosa vorrebbe che facessero quando saranno grandi?
-Ma che diavolo significa?
-Quando cresceranno, cosa pensa che faranno?
-(…)
-Quando suo figlio, come si chiama…
-Andrew.
-Quando Andrew sarà un uomo…
-Signorina, cosa le fa pensare una cosa del genere? Un ragazzo è un ragazzo.- proruppe stizzito.
-I ragazzi crescono…- replicai, ma subito interruppi quella riflessione e balzai alla conclusione logica a cui portava l’incapacità di quell’uomo di pensare alla normale evoluzione della vita di un essere umano.
-Lei ha paura della morte?- gli sussurrai, con le lacrime che iniziavano a tradirmi. Intuivo che, a meno che qualcuno non li uccidesse, quella gente non poteva neppure morire; forse era per questo che la loro non sembrava affatto una vita.
Jonathan si chinò per prendere la valigia e mi salutò.
-Aspetti! Lei…- un sospetto atroce mi si infilò nella testa; era qualcosa cui non avevo pensato fino a quel momento -Lei ricorda la nascita dei suoi figli?
Se ne andò dopo avermi degnato di uno sguardo caritatevole che si era rapidamente trasformato in indifferenza.
Per me, questo fu davvero troppo.

III.

Tornai alla BMW, salii, misi in moto e mi diressi da Marco.
Piangevo, e mi sentivo sola come una goccia impazzita di mille colori, alla deriva in un oceano piatto e fermo fotografato in bianco e nero.
L’appartamento del bell’italiano si trovava in una delle zone più alla moda della Londra del terzo millennio, molto in alto all’interno di uno dei nuovi grattacieli residenziali per manager e liberi professionisti. Mentre la sopraelevata mi portava laggiù, nel cuore della grande ansa del Tamigi, notai che la skyline dei Docklands non aveva perso il suo fascino. Ma persino lì, nell’epicentro dei terremoti affaristici e finanziari di una volta, una calma indifferente regnava sovrana.
Raggiunsi il parcheggio sotterraneo e con il telecomando entrai e sistemai la BMW esattamente dove l’avevo trovata, un paio di giorni prima.
Mi recai agli ascensori, che erano riservati ai soli residenti. Non avevo la chiave e citofonai.
Marco rispose con una voce assonnata, ma mi parve che la mia richiesta di salire lo scuotesse un poco.
-Lola! Sali pure.
Mi mandò giù un ascensore e io salii fino al ventiquattresimo piano. Le misure di sicurezza per l’accesso non erano affatto mutate.
In breve fui alla porta del suo appartamento.
Quando aprì, lui indossava un impeccabile abito chiaro italiano, che mi sembrò perfettamente intonato al sorriso con cui mi accolse, ampio, leggero e tranquillizzante.
-Lola, entra, ti prego!
Mi accolse come se avermi lì fosse un fatto del tutto ovvio e normale. Non provai nulla delle emozioni che normalmente quell’uomo sapeva scatenare in me. Era come se fosse stata un’altra persona.
Entrai.
L’appartamento era tirato a lucido, come fosse stato appena comprato e arredato. Era lo stesso luogo che conoscevo e non lo era più. Proprio come il suo proprietario.
Volli farlo ricordare. Lui, o almeno il lui dell’epoca in cui c’era il tempo, era stato troppo importante per non valere un tentativo. Non fu facile descrivere gli eventi, così come li ricordavo io, senza poter fare affidamento sui giorni e le ore.
E fu tutto inutile.
Marco non ricordava i dodici rintocchi che avevamo udito abbracciati sotto le lenzuola, né ricordava di essersi svegliato da solo.
Eppure, sapeva bene chi ero, e cosa amavamo fare insieme, e da come parlava conosceva me, i miei gusti, i miei segreti. Era diventato un uomo senza passione, proprio come il resto del mondo. Ero arrivata lì alla disperata ricerca del contrario, ma avevo fallito.
Marco non ricordava di aver notato l’assenza della BMW, eppure quando gli porsi le chiavi dell’auto e lo costrinsi a riflettere ammise che aveva usato diversi taxi, ma non era in grado di specificare il perché. Anche la sua quotidianità, come per tutti gli altri, era fatta di falsi movimenti scanditi in modo automatico, asettico, e privi di causa, significato o finalità.
Gli chiesi di poter andare nella stanza degli orologi, che era la parte di quella casa che amavo di più.
Ero terrorizzata dalla possibilità che mi rispondesse con uno sguardo vacuo, e che quel luogo non fosse mai esistito, e invece sorrise e mi ci portò.
Ero sempre stata affascinata da quella stanza, di cui ricordavo le pareti ricoperte di orologi di ogni forma, tipo e provenienza; centinaia di ovali, quadrati, rettangoli, rombi, casse, quadranti e display; orologi antichi e moderni, sveglie, vecchie pendole, orologi a cucù, cronometri digitali; orologi grandi e piccoli, ovunque, affastellati con gusto e precisione. Quello che mi piaceva di più era il loro suono d’insieme; quell’armonia disarticolata di passi, ronzii, tic-tac e battiti, tutti uguali e tutti diversi, che scandivano all’unisono il ritmo della vita.
Quando Marco aprì la porta, il silenzio che invadeva l’aria mi aggredì come il tonfo sordo di un’esplosione. L’assenza di quel suono fu come un’onda d’urto al contrario, che risucchiava all’interno di quel luogo in cui la vita era stata sopraffatta dal vuoto spinto.
Tutti gli strumenti erano fermi, ed indicavano la stessa ora, le cinque e un quarto. Dovetti uscire subito, e sentii la nausea aggredirmi violenta, irriguardosa che fossi al cospetto di quello che avevo considerato l’uomo della mia vita. Sotto gli occhi stupiti di Marco, mi rifugiai nel bagno, dove attesi che passasse.
Smisi di tentare.
Non gli chiesi se conoscesse il significato di quegli strumenti; non gli chiesi se sapeva leggerli, non gli chiesi di ricordare le ore che amavo passare là dentro, con lui. In un residuo rigurgito di amor proprio, volli evitare di farmi ancora più male, e me ne andai.
Seduta in treno, vedevo i palazzi sfilare al di là del vetro, nel quale all’improvviso, complice lo sfondo scuro di un grattacielo in ombra, vidi riflessa la mia immagine, un volto muto e immobile come quelli che vedevo ovunque intorno a me.
Londra era coperta dalle nubi, le compagne di sempre, ma non sembrava che stesse per piovere. Il grande freddo dei giorni scorsi sembrava stesse abbandonando la città.
Notai con piacere una falla nella cortina delle nuvole, attraverso la quale alcuni raggi di sole raggiungevano il suolo illuminando proprio l’area di un piccolo verde parco; fu quella luce a liberare un ricordo che riaffiorò come un pezzetto di sughero sulla superficie. Le cinque e un quarto, l’orario che tutti gli orologi segnavano nella stanza a casa di Marco. Era l’ora del mattino alla quale avevo lasciato quel posto, due giorni prima.
Sentii improvvisa la voglia di muovermi. Mi alzai e scesi dal treno, pur non sapendo affatto dove fossi..
Mentre mi muovevo, spinta da qualcosa che ignoravo da dove venisse, sentivo i miei ricordi sbiadire. Dovevo fare in fretta; qualunque cosa avesse causato la fine del tempo stava cominicnado a fare effetto anche in me. Mi resi conto che diventava sempre più difficile tenere a mente il significato di alcune parole, il senso stesso del fluire degli eventi, dell’avvicendarsi degli istanti l’uno sull’altro. Tutto rischiava di appiattirsi in quella fotografia del mondo in cui mi sentivo prigioniera. Dovevo davvero far presto; a far cosa, non lo sapevo nemmeno io. Sapevo solo che dovevo muovermi: era importante trovare un posto dove quella immobilità non esistesse; un luogo che, per la sua stessa natura, fosse immune dalla paralisi.
Il treno si muoveva sempre più lentamente, mi sembrò addirittura che fosse prossimo a fermarsi. Pensavo che la fine del tempo avrebbe portato proprio a quello: tutto si sarebbe potuto fermare. Una volta esaurita la spinta inerziale che in qualche modo era ancora presente, il mondo si sarebbe bloccato per sempre, ed io con lui.
Non potevo permetterlo.
Scesi alla stazione successiva, dove, sul lato opposto della banchina, vidi fermo un altro treno che riportava “Shoeburyness” come destinazione. Ricordavo bene quella piccola città alla foce del Tamigi, e le sue belle spiagge, così poco inglesi, sempre deserte a causa del rischio di esercitazioni militari. Mi lasciai andare alla voglia di mare che sentii improvvisa nella pancia e salii a bordo.
Dopo poco arrivai a destinazione.
L’atrio della grande stazione di Shoeburyness era quasi deserto. Corsi via, fuori, più in fretta che potevo. Il cielo verso l’orizzonte era terso, sembrava proprio che la cortina delle nubi avvolgesse l’Inghilterra solo entro i limiti della terraferma. Tutto intorno a me era immobile. Madri stanche a passeggio con le carrozzine, cani al guinzaglio di padroni imbronciati dal troppo sole, coppie di giovani senza più amore.
Sapevo che il mare era molto vicino alla stazione.
Quando arrivai all’acqua mi sembrò di vedere solo una lastra di ghiaccio azzurra, senza onde né increspature. Ero arrivata troppo tardi.
Avevo troppa paura di quel che avrei visto, se mi fossi messa a guardare quel che avevo davanti. Mi sedetti sulla sabbia fredda, vicino all’acqua, e mi abbracciai le ginocchia, nascondendoci la testa nel mezzo. Non avevo più nemmeno la forza di piangere.
Mi addormentai, e non saprò mai per quanto.
Poi quella stessa misteriosa energia che mi aveva portato fin lì, mi obbligò ad alzare la testa. La lamina blu della superficie del mare sembrava immobile, ma io non mi arresi e non distolsi lo sguardo. Lentamente, vidi le prime gocce d’acqua scivolare sulla massa ferma, come lacrime su una tavola d’olio. Altre goccioline si composero poi in un’onda sottile, che si spalmò sopra a tutto e mi venne incontro, fino a lambire i miei piedi nudi.
Pian piano vidi le onde tornare a fluire, e quella massa immobile sciogliersi sotto i miei occhi. Finalmente sentii di nuovo il rumore dell’oceano. Mi stropicciai gli occhi, incredula, e li sentii gonfi di lacrime. Respirai a fondo e inspirai avidamente l’odore del sale, fino a mangiarlo.
Cominciai a contare le onde che arrivavano a riva: una, due, tre, quattro. Cinque, sei, sette, otto.
Musica.
Potevano aver cancellato il tempo fuori di me, ma non erano riusciti a cancellare il mio tempo, dentro di me.
Mi persi a seguire con lo sguardo un gabbiano volteggiare, quando udii un fischio acuto, lontano, poi un altro, e poi ancora un altro.
Tornai alla stazione di volata.
Le carrozzine cigolavano, i vecchi borbottavano, le coppie si amavano.
-Treno per Limehouse, delle ore cinque del pomeriggio, in partenza dal binario sette!- gridava il capotreno.
Caddi a terra, in lacrime. Un signore si avvicinò immediatamente, e mi aiutò a rialzarmi.
-Signorina, si sente bene?
Feci schioccare un bacio sulle labbra, e quello mostrò di aver gradito. Rimase lì, imbambolato, a guardarmi mentre salivo su quel treno.
Chiesi che ora fosse a tutto il vagone, e le risposte che ebbi, in perfetto stile britannico, non si discostavano di più di un minuto l’una dall’altra. Erano le cinque e ventotto-ventinove del pomeriggio.
La prima cosa che feci fu tornare da Marco. Quando aprì la porta gli gettai le braccia al collo e poi mi precipitai nella stanza degli orologi.
Gli chiesi se ricordasse del nostro ultimo incontro, poche ore prima, e lui mi disse di sì. Mi disse che avevo preteso anche allora di entrare in quella stanza, ma che me ne ero allontanata, in preda al panico, perché, disse, non riuscivo a sentire nulla, e lui non aveva capito.
Ma finalmente lo sentivo di nuovo.
Il suono del tempo.