venerdì 22 agosto 2008

Essere stato umano

Questo racconto è giunto finalista al concorso "Il Prione" 2006 ed è stato pubblicato nella relativa antologia, a cura come sempre delle Edizioni Giacché .
In seguito è stato anche pubblicato sulla rivista "Nugae" (N. 12/2007) e sull'antologia Space Prophecies dell'omonimo concorso.

Essere stato umano

Quando ero ancora ciò che si dice un essere umano, mi svegliai presto al mattino di un giorno d’inverno, raggomitolato nel mio letto nella stanza al cinquantesimo livello sotterraneo dell’albergo “Horizon” di Nuova Shangai.
Non riuscivo più a dormire.
Avevo troppo freddo, e avvertii subito lo stimolo della fame.
Digitai i codici delle mie richieste per la colazione sulla tastiera alla mia sinistra e dopo pochi secondi avevo davanti a me il caffè tiepido e le fette di pane di sintesi coperte di crema di bacche dolci. Tentai inutilmente di scaldarmi le mani stringendo la tazza; la mia bocca faceva più vapore del caffè.
Vivere su Nettuno richiede un’estrema attenzione al consumo di energia: la massima temperatura che il climatizzatore poteva concedere alla mia stanza corrispondeva a 16 gradi nella scala Celsius.
C’era proprio bisogno di un buon motivo per accettare condizioni così ostili.
Il mio, a quel tempo in cui vivevo ancora le fallaci passioni di coloro che si sentono umani, era fare carriera, e rendere felice la mia giovane e innamorata donna.
Ero un brillante ingegnere, specializzato in impianti geotermici, e avrei dovuto guidare il gruppo di ricerca incaricato di ottimizzare lo sfruttamento dell’energia nella fascia tropicale del pianeta, l’unica abitabile.
Quella stessa mattina uscii dalla mia stanza e mi recai al colloquio con il Governatore Planetario. Dopo un breve briefing mi ritrovai a sorvolare la fascia tropicale per il sopralluogo di rito.
Guardando verso il basso mi resi conto di quanta entropia venisse bruciata stupidamente su quel pianeta e iniziai a fantasticare decine di idee per ridurre lo spreco, che si sarebbero presto potute trasformare in avanzati progetti di conversione e sfruttamento dell’energia.
E invece, all’improvviso fu il buio.
Seppi solo in seguito che la navicella su cui volavo insieme al pilota era stata colpita dal getto anomalo di un geyser di dieci chilometri di altezza ed era precipitata su di un insediamento coloniale. Gli sfortunati abitanti furono sterminati, ma quando venni a saperlo non provai alcun senso di colpa.
Quando mi svegliai nel centro di riabilitazione di Sun City il mio primo movimento spontaneo fu tentare di gonfiare i polmoni per respirare a fondo. Mi accorsi che non ci riuscivo e fui preso dal panico; mi calmai quando mi resi conto che non era necessario riempire completamente i polmoni per essere in grado di far entrare in me tutta l’aria di cui avevo bisogno.
Mi portai istintivamente la mano sul petto e le punte delle mie dita sfiorarono appena, per ritrarsene subito con paura, il gelido titanio che a larghi tratti si sostituiva alla mia pelle. Mi dissero che anche una parte dei miei organi interni erano stati sostituiti con prodotti di una nuova tecnologia; mi guardai allo specchio e alla forte luce del bagno della clinica i miei fragili occhi umani furono quasi accecati dai riflessi delle lastre di metallo che si mescolavano al mio martoriato ma funzionante corpo.
I medici e gli ingegneri biomeccanici mi dissero che ero stato molto, molto fortunato, e io credetti alla loro professionale, impeccabile e retorica loquela.
Mi accorsi che da allora la mia visione della vita era cambiata; o per meglio dire, fu la mia donna a farmelo osservare, il giorno in cui mi lasciò solo.
Ero diventato un freddo cinico, e mi scoprii sempre alla ricerca del colpo di fortuna che mi riempisse di crediti. Il giusto, per farsi una bella casa sull’oceano della tranquillità di Fobos e starsene tutto il giorno in panciolle, sotto il cielo verde scuro e alla caldissima luce bianca del riflettore solare orbitante.
Volevo solo essere al riparo dagli sguardi indiscreti di facili e improvvisati giudici della mia sincera apatia verso le cose che nascono dai sentimenti.
Alla ricerca di nuove fonti di energia iniziai a preferire un’occupazione ben diversa e più divertente: il redditizio commercio di beni tra pianeti.
Scoprii di avere un talento particolare per lo scambio, il baratto, la capacità di mercanteggiare oggetti contro oggetti diversi, cibo pregiato contro metalli pesanti, pile atomiche portatili contro vesti artigianali dei più lontani ed esotici mondi esterni.
Ero un vero portento; dare ad ogni cosa l’esatto valore commerciale mi consentiva margini di guadagno ampi e soddisfacenti. E, cosa ancor più importante per il mio successo, anche chi scambiava merce con me rimaneva sempre soddisfatto e continuava a cercarmi per fare affari.
I portuali dei vari pianeti presero a chiamarmi “il rigattiere”, e divenni presto famoso per essere in grado di scambiare al giusto prezzo qualunque oggetto capitasse tra le mie fredde mani di essere a sangue caldo.
I commercianti più invidiosi mi giudicavano un reietto perché a differenza di loro, che non vedevano l’ora di tornare tra le braccia delle ansiose mogliettine, avevo deciso di vivere per conto mio sul mio cargo, il “Solitudo”.
Era lì che mangiavo, dormivo e lavoravo, unico a decidere in che ordine e in quale momento.
Avevo persino la mia più che dignitosa vita sessuale, con tutte le puttane orbitanti nei loro monolocali nella fascia degli asteroidi, dove le pattuglie di controllo non entrano mai, per quel misto di tolleranza e paura che ha lasciato che la fertilissima muffa di parassiti, ladri, dissidenti, assassini e rivoluzionari in fuga nascosti nella zona di interposizione si trasformasse nel regno di bengodi per noi mercanti.
Furono tre brevi anni di avventure nella mia fissa dimora vagante.
Poi, quei maledetti mercanti di Giove mi speronarono con un carico di rifiuti espulso da una delle loro navette di spola. Sono convinto tuttora che lo avessero fatto di proposito. Furono felici di sapere che in seguito all’incidente persi entrambe le gambe e persino il mio ricercato e brillante organo riproduttivo.
Divenni così oggetto di interesse del professor Kamer, che dopo avermi operato nella sua lussuosa clinica sul pianeta Radon fu lieto di annunciare in olovisione planetaria il primo impianto di un pene meccanico perfettamente funzionante in un essere umano.
La cosa procurò fama e successo ad entrambi.
La mia attrazione per il sesso opposto era ancora integra; fui cavia umana negli accoppiamenti con donne splendide che finalmente non dovevo pagare di tasca mia.
Non nego che qualcuna ne abbia anche tratto un certo godimento.
Ma dell’amore, quella strana inspiegabile sensazione che ti scalda anche nel deserto più freddo degli anelli di Saturno, dentro il mio stomaco in lega avanzata, non sentii più alcuna voglia.
Ne serbavo memoria ma me ne sentivo come alienato, estraneo. Pensavo alla mia donna e mi chiedevo come mai fossero scomparse la nostalgia e l’affetto di un tempo ormai lontano. Fotografie senza movimento al posto di affetti personali, questa era la sola rappresentazione del mio passato, scolpita nel mio cervello come una collezione di fredde statue senza vita.
Ma le mie potenti gambe di lega Ferro-Silicio si muovevano più in fretta di quelle di un atleta.
La padronanza e la coordinazione che avevo del mio corpo e delle sue reazioni fisiche era diventata stupefacente.
Mi muovevo come mai mi era capitato dalla nascita. Ogni mio pensiero si traduceva in azione senza più dubbi, né esitazioni.
L’azione che ne derivava veniva portata a termine in modo accurato e preciso.
Mi sentivo potente.
Imparai ad usare le armi, anche le più pericolose, ma non fu per aggressività, come alcuni sostenevano. Fu invece la capacità di uccidere con la massima indifferenza a guidarmi verso di esse; eppure non lo feci mai, a meno che non fosse strettamente necessario.
Cominciai a pensare di essere ormai diverso da tutti; se più o meno perfetto non saprei dire, tuttora.
Decisi di arruolarmi volontario nel corpo di custodia della banca interplanetaria.
Guadagnavo in una sola settimana quello che prima avrei messo insieme in un lungo anno; scortavo carichi di riserve di platino in viaggio tra pianeti e sistemi, e quasi nessuno credeva che fossi nato sulla terra.
Sei troppo perfetto, mi dicevano tutti, per venire da quel pianeta malato e morente.
Le donne erano ancora molto attratte da me, e solo in rare occasioni le parti non umane del mio disgraziato corpo le allontanavano in gran fretta. Negli altri casi, il mio prezioso seme veniva ricercato con un’ostinazione particolare, soprattutto in quei sistemi in cui la decadenza e le malattie rendevano fragile la sopravvivenza delle colonie umane e aumentavano a dismisura il prezzo di un accoppiamento con il maschio più ambito della galassia.
Pensavano che fosse una questione genetica.
Un giorno compresi che la mia fama mi avrebbe consentito di farmi strada in politica.
Decisi di accettare le pressanti insistenze di un tale che conoscevo sin dai tempi in cui ero stato un mercante. Divenni sindaco del porto di Bathros, nel sistema di Vinesta. Le folle mi adoravano, e grazie al fatto che Vinesta era una delle poche democrazie sopravvissute nella galassia, dopo pochi mesi fui eletto vice-governatore del sistema.
Ma gli interessi dei tiranni dei sistemi limitrofi erano troppo vasti e Vinesta venne presto invasa.
Dovevo difendere i miei interessi. Fui tra i capi della rivolta e diedi il mio formidabile contributo alla guerra di resistenza, ma ero ancora troppo umano, a quel tempo, per poter resistere alla tortura della fame e della sete a cui venni sottoposto in prigionia. Il mio corpo chiedeva ancora del cibo, a quel tempo, e tanta acqua.
Riuscii ad evadere, ma durante la fuga venni attaccato da un pattugliatore e precipitai nel campo gravitazionale di un piccolo pianeta con atmosfera di ossigeno, in cui la nave, colpita, si accese come un fiammifero.
Il mio corpo andò a fuoco insieme alla nave. Poi l’incendio si esaurì e rimasi avvolto tra i suoi resti.
Non mi è possibile stabilire se fossi vivo o morto; le normali cognizioni e le regole della fisiologia umana si adattavano solo a una parte di me. Il mio cervello era spento; il mio cuore di sintesi era integro ma fermo. Eppure, il mio ricordo di quei tre mesi in cui fui dato per disperso è così simile all’immagine del sonno umano che non saprei cosa rispondere a questa difficile domanda.
I miei uomini mi cercarono e trovarono sul pianeta ciò che di me rimaneva.
Avevano ancora bisogno di me; il capo della rivolta di Vinesta non poteva morire.
Fui portato su Radon, e fui affidato nuovamente alle cure di Kamer e della sua equipe.
Ciò che avanzava di me sarebbe stato molto difficile da descrivere. Lo spettacolo fu giudicato ripugnante dai presenti, ma il mio vice, Kaltor, convinse Kamer che era necessario preservare il mio aspetto fisico; darmi nuova vita. La minaccia delle armi a disintegrazione che Kaltor e gli altri compagni impugnavano contro i medici furono un notevole strumento di persuasione. A volte, il fine giustifica largamente i mezzi adoperati.
Kamer ritenne di poter recuperare o sostituire tutte le parti del mio corpo che non avevano natura umana; le altre erano andate perse nei processi di putrefazione organica.
Ma il mio cervello, ancora chiuso nella calotta in lega al titanio che mi era stata impiantata anni addietro dopo uno dei numerosi incidenti, era apparentemente integro.
Kamer fu protagonista di un vero miracolo, e creò così un corpo di androide perfettamente somigliante a me; il mio prezioso cervello venne trasferito e collegato, sinapsi per sinapsi, ganglio per ganglio, terminazione per terminazione, al sistema elettroneuronico del mio nuovo brillante organismo biomeccanico; Kamer fu anche in grado di espiantare le mie retine umane e trasferirle nell’androide che divenni. Pensava che fosse fondamentale riutilizzarle, e dovette superare le resistenze di alcuni suoi collaboratori che ritenevano superflua quest’integrazione, rispetto ai rischi che implicava.
Non ricordo molto di quel giorno, a parte l’intensa luce che colpì i miei occhi, dopo che le palpebre meccaniche si sollevarono in seguito all’attivazione del circuito linfatico vitale.
Mi guardai allo specchio e vidi il me che ero stato un tempo.
Mi riconobbi. Non più metallo, all’aspetto, non più pelle, nella realtà, ma ero proprio io. Nessuno mi avrebbe definito e giudicato altro che un uomo.
Ma ero un robot.

Passò del tempo.
Avevo ancora in me tutti i miei ricordi e sapevo di non essere ormai più che un androide, seppur comandato da un cervello umano. Nessuno poteva dirmi se e quanto sarei potuto sopravvivere, ammesso che questo termine fosse adatto alla mia situazione.
I miei nemici non sapevano della mia resurrezione; i miei uomini attendevano che tornassi a guidarli contro gli oppressori.
La mia memoria era sorprendentemente piena di ricordi e immagini del passato. Giorno dopo giorno, era come se me ne riappropriassi, lentamente, e con calma.

In una giornata intiepidita dalla luce dei tre soli del sistema di Radon, passeggiavo in un giardino al ritorno dall’ennesimo controllo biomeccanico, a poche centinaia di metri dalla clinica.
Vidi una bambina correre svelta su per il vialetto e allontanarsi dalla madre, che si era fermata a parlare con un’altra donna poche decine di metri più in basso. Istintivamente, la seguii con lo sguardo, e non ne compresi il motivo; erano decenni che non eseguivo gesti inutili per la mia sopravvivenza.
Vidi quella bambina ruzzolare in terra e rimanere distesa per qualche istante vicino alla barriera di energia della caserma dei pattugliatori, all’interno della zona di sicurezza che tutti, tranne i bambini, sanno di non dover oltrepassare; a meno di un metro dalla barriera si rischia di morire disintegrati in pochi minuti.
Non ci pensai un istante e mi lanciai verso la bimba, che stava già urlando per il dolore che il campo di energia doveva provocarle in testa; vidi i suoi boccoli biondi cominciare ad annerirsi, segno che la combustione stava iniziando e che il calore doveva essere già insopportabile.
Sapevo che la barriera avrebbe potuto crearmi dei danni irreversibili, eppure il mio unico e irrefrenabile pensiero fu toglierla di lì.
Corsi più in fretta che potevo, mentre udivo le urla disperate della madre, che si era finalmente resa conto di quanto stava accadendo e imprecava contro se stessa, immobile, terrorizzata e impotente.
Dovetti avvicinarmi molto alla barriera e riportai una violenta abrasione al braccio destro, con il quale riuscii comunque ad afferrare quel corpo leggero e piangente e lo scaraventai senza troppa gentilezza nel prospiciente laghetto, dove il calore si disperse in fretta e la piccola fu salva.
Alcuni passanti accorsero e la estrassero dall’acqua.
Fui subito fermato da tre pattugliatori, che per via della disumana rapidità del mio intervento non avevano notato nulla di quanto accaduto alla bimba.
Notarono subito, invece, il mio braccio ferito.
-Che diavolo ci fai qui, civile?
-Nulla, Signore, le chiedo scusa, esco ora dall’ospedale e sono ancora sotto l’effetto dell’anestesia; ho perso l’equilibrio e sono scivolato.
Abbassai lo sguardo e mostrai a quell’uomo un reverenziale rispetto per la sua divisa e le sue onorevolissime funzioni.
Dovevo salvaguardare il mio anonimato.
Il pattugliatore che mi aveva rivolto la parola si rese conto che il mio braccio era artificiale e con mia grande sorpresa ne fu subito affascinato.
-Kamer, eh?
-Sì, signore, Kamer- replicai con deferenza.
-Quell’uomo è un genio!- aggiunse lui -ti ha salvato il braccio? quella è una sintesi titanio alfa-sette, non è così? In caserma abbiamo tre colleghi che devono la vita a quel chirurgo e alle sue meravigliose protesi ed oggi sono ancora tra noi a lavorare per strada per proteggere la collettività.
-Chiuderò un occhio su questa grave violazione- aggiunse sorridendo- ma allontanati immediatamente!

Avevo avuto fortuna.
La madre della bimba non aveva compreso l’accaduto e mi guardava con odio, forse ritenendomi responsabile della disgrazia, mentre si allontanava con la piccola; la bambina piangeva ancora, mi fissò diritto negli occhi, mi sorrise con infinita dolcezza e mosse le labbra per ringraziarmi, senza emettere alcun suono.
Fu allora che sentendo una goccia calda offuscare la perfetta vista della mia pupilla artificiale e scendere sulla mia pelle di polimeri di sintesi capii ciò che Kamer mi aveva dato.
Prima di allora le lacrime mi erano servite solo per sciogliere la secchezza e aumentare la capacità visiva.
Pensai di nuovo alla luce che avevo visto il giorno in cui ero rinato, e compresi che fino a quel giorno non avevo mai vissuto la mia umanità.
Ma in quell’istante, in questo corpo androide e in qualche modo che non ho più voglia di comprendere, me ne ero finalmente riappropriato.

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