Con questo racconto in tre capitoli, uno dei miei cui tengo di più, ho vinto il primo premio del concorso "Pensieri in versi" nel 2009, e ottenuto una menzione in occasione del premio Città di Salerno.
I.
I.
Quel giorno mi ero svegliata sotto l’effetto dei vizi di cui amo essere prigioniera.
La sera prima la cena era stata superba, il vino impareggiabile, per non dire di tutto quel che era venuto dopo. Marco era davvero uno che ci sapeva fare con le donne, ma nonostante questo io me ne ero andata via nel cuore della notte, sgattaiolando via dal suo appartamento, a ritrovare la mia libertà di sempre.
E dire che in quelle ore avrei davvero voluto fermare il tempo. Soprattutto in alcuni particolari momenti. Strano, ora che ci penso, era in effetti quello che mi pare di aver provato con lui, quella sera: il tempo con quell’uomo sembrava potersi fermare davvero, e sempre all’istante giusto, naturalmente.
Avevo usato la sua auto per tornare a casa, e questo era fra l’altro un ottimo pretesto per poterlo rivedere il giorno dopo. Non avrei nemmeno dovuto proporglielo; sapevo che lui avrebbe certamente sentito una gran mancanza, se non di me, della sua splendida sportiva decappottabile.
Sarebbe stato bello rimanere avvolta fra le sue lenzuola e risvegliarsi accanto a lui al mattino seguente. Ma io volevo che quella storia andasse avanti, e quindi non potevo permettere al tempo di smettere di scorrere troppo a lungo. E’ bello fermare il flusso delle cose, ma solo per alcuni istanti. Poi il movimento della vita deve ripartire.
Che il tempo esista, fuori di noi, è qualcosa di cui ho sempre dubitato, ma con la stessa forza sono sempre stata convinta che esso esista dentro l’essere umano, e ne scandisca ogni movimento, ogni idea, ogni sogno.
Era il 21 aprile 2009. Mi pare che fosse una domenica, ed era la mattina seguente la mia notte con Marco, l’italiano che lavorava nel mio ufficio. Ironia della sorte, lui era un appassionato collezionista di orologi.
Mi ero svegliata spontaneamente, felice di non essere molestata dalla radio, che in qualunque altro giorno, alle sette in punto, mi avrebbe ricordato che la mia vita dipendeva dallo stipendio che veniva versato il giorno ventisette di ogni mese.
O forse era il ventisei? A quei tempi dubitavo di quanti giorni fosse composto un mese, o quanti fossero i mesi dell’anno; è difficile mantenere la propria identità in un mondo che non ti corrisponde più. Inizi a dubitare anche della tua sanità. Inizi a chiederti se sei tu quella sbagliata.
Mi guardai allo specchio. Ciò che vidi mi fece dubitare dei gusti di Marco in fatto di donne; le nottate a base di vino italiano hanno sempre questo effetto su di me, a parte tutto il resto.
Quella mattina a Londra nevicava. La mia casa nel West End era avvolta da un soffice manto freddo, e mi diedi da fare per accendere il camino. Quasi rimpiansi di non essere rimasta nell’appartamento di Marco, quando mi tornò in mente che la sua auto era nel mio vialetto e lui avrebbe trovato il modo per venire a riprendersela.
Speravo che mi chiamasse, e che lo facesse presto. Io non lo avrei mai fatto. Chissà cosa sarebbe successo, se invece avessi messo da parte il mio stupido orgoglio. Chissà se quella mattina ero ancora in tempo per fermare tutto. In realtà, ancora oggi non saprei dire cosa sia realmente accaduto.
Marco non chiamò, ed io trascorsi una gelida domenica in casa, sola, accanto ad un telefono che non squillò per l’intera giornata. Quasi mi sembrò che il mondo si fosse fermato; qualcuno aveva messo in pausa lo scorrere del film dell’esistenza. La neve continuava a cadere, ne più né meno di prima, il cielo iniziava a incupirsi, ed io con esso. Accesi tutte le candele che avevo in casa, e in quell’atmosfera di tenebra, al tremolare di decine di fiammelle mi sentii quasi obbligata a cercare un mio calore interno.
Dovetti in qualche modo trovarlo, perché mi addormentai sulle pagine di un romanzo che non riuscivo a finire, e che non ricordavo nemmeno di aver iniziato. Era una strana storia fantastica che aveva per protagonista una ragazzina. Ero arrivata a un punto cardine, la ragazzina era prigioniera nella casa del suo salvatore, assediata da persone malvagie vestite di grigio. Ebbi la netta sensazione di sapere già cosa succedesse in seguito, e perdendo interesse per la storia mi assopii davanti al camino scoppiettante.
Mi svegliai che il sole era già alto, e mi resi conto che doveva essere tardissimo. Mi precipitai sotto la doccia, bevvi un caffè freddo avanzato dal giorno precedente e senza esitare presi le chiavi dell’auto di Marco; avrei fatto molto più in fretta che in treno, e poi così avrei potuto restituirgli la BMW, oltre a comunicargli che fra noi due era finita per sempre. Quell’idiota doveva aver dormito tutto il giorno per arrivare a non preoccuparsi non solo per la mia fuga, ma anche (e soprattutto) per l’assenza del suo amato bolide. Era meglio essere chiare, e liberarsi in fretta di uno così, prima che fosse troppo tardi.
Andando in ufficio fui presa dalla voglia di tirargli un brutto scherzo e fingere di non sapere nulla dell’auto; avrebbe pensato che gliel’avessero rubata e sarebbe andato su tutte le furie. Sì, meritava uno scherzo del genere. O forse, no; una sana indifferenza sarebbe stata una tattica migliore. Rimandai la decisione all’esatto istante in cui, di lì a poco, lo avrei incontrato.
Finalmente era smesso di nevicare. Guidando nel traffico insolitamente scarso della M4 mi resi conto che nella fretta non avevo nemmeno controllato l’ora prima di uscire di casa, e come se non bastasse avevo dimenticato il mio Tissot. Cercai l’orologio sul cruscotto della BMW, ma non riuscii a trovarlo; smanettai nervosamente sugli interruttori del computer di bordo, ma fra le informazioni non appariva mai l’ora, e nemmeno la data.
Comunque ero sicura che l’orario di entrata era scaduto da un pezzo. Era senza dubbio per quello che il traffico del lunedì mattina era così stranamente calmo; sembrava davvero che io fossi l’unica che doveva ancora recarsi al lavoro, a quell’ora. Infransi tutti i limiti di velocità ed entrai nel cortile della mia azienda, la Mindset.
Salutai Ben, la guardia, con un sorriso di circostanza, e decisi di evitare l’ascensore. Mentre salivo in gran fretta per le scale verso il terzo piano cercai il badge magnetico nella borsetta. Lo trovai, lo estrassi e con il gesto automatico che avevo ripetuto tutti i giorni lavorativi degli ultimi tre anni, senza guardare, protesi il braccio verso la posizione abituale del conta-tempo.
La mancata emissione del tranquillizzante bip d’ingresso mi bloccò. Mi voltai verso la parete, e con grande sorpresa vidi che il conta-tempo era stato rimosso. Ripensai alla gran corsa che avevo fatto per arrivare ad un orario perlomeno accettabile, e mi sentii una sciocca.
Evidentemente l’apparecchio si era guastato, e lo stavano riparando. Non ci pensai più e imboccai il corridoio, avanzando a passo svelto verso la stanza che condividevo con due colleghe. La concitazione dei miei passi era assorbita dalla morbida moquette verde. Gettai delle occhiate distratte oltre le porte che superai per arrivare in fondo -la mia stanza era praticamente dalla parte opposta rispetto alla porta d’ingresso del terzo piano- e con grande sorpresa vidi solo pochi colleghi al lavoro quella mattina. Alcuni di loro mi salutarono con una calma che trovai surreale, rispetto al ritmo frenetico che normalmente imperava fra i corridoi della Mindset. Non avevo incontrato nemmeno Marco, che in genere quando arrivavo io faceva di tutto per incrociarmi casualmente; dalla notte precedente quel ragazzo continuava a scendere verso il fondo della mia personale graduatoria in fatto di uomini.
Finalmente arrivai alla mia stanza, in cui progettavo di chiudermi tutto il giorno. La porta era chiusa, ma ebbi la sensazione che dentro non vi fosse nessuno. Perciò bussai con delicatezza ed entrai con decisione.
Solo quando fui all’interno mi accorsi della differenza rispetto a quel che era sempre avvenuto in passato: chiudendo la porta e barricandomi nella stanza non avevo interrotto alcun concerto di ovattati squilli telefonici che rappresentavano il rumore di fondo fisiologico della Mindset durante l’orario d’ufficio.
E non era tutto: le scrivanie riflettevano le chiome degli alberi del giardino di fuori, tanto erano pulite e presentabili. Lo stato di perfetto ordine della mia postazione mi sembrò irreale; mi sforzai di ricordare come l’avevo lasciata solo due giorni prima, cioè venerdì pomeriggio; ero certa di aver abbandonato alla deriva fra fax, documenti e fascicoli vari, due prominenti pile di carte su cui avrei dovuto sgobbare per tutta la settimana, per presentare la prima bozza della campagna entro il venerdì successivo; era proprio quella la ragione per cui avevo fretta di mettermi a lavorare. Detesto essere in ritardo proprio quando sono sotto data di consegna; non sopporto lo stress, fa male al mio lavoro.
Oltre al mio computer, anche quello di Claire sembrava spento; l’unico monitor acceso era quello di Corinne, che doveva essersi allontanata.
Premetti il pulsante e durante l’accensione e il collegamento al sistema mi mossi verso la macchinetta del caffè, secondo il rito. In realtà la regola voleva che Corinne, Claire ed io consumassimo assieme il primo caffè della settimana, ma probabilmente quella che aveva violato i patti quel giorno ero stata proprio io. Mentre sorseggiavo il mio espresso, che avevo preparato rigorosamente in stile italiano nonostante tutto, pensai a quanto era strano che non fossi ancora riuscita a sapere che diavolo di ora fosse. Né la mia curiosità fu soddisfatta quando mi sedetti davanti al computer, perché nell’angolino in basso a destra del monitor, dove ero convinta che avrei visto l’orologio, c’era invece una simpatica faccina che alternava un sorriso e una smorfia al ritmo di un conta-secondi, o almeno così mi parve. Qualcuno doveva essersi divertito a smanettare sul mio PC durante il fine settimana. No, era da escludere; c’era una password personale, che fra l’altro avevo cambiato io stessa prima di uscire la sera di venerdì. Mi rassegnai e smisi di pensarci.
Mi immersi nel lavoro, dopo aver ritrovato le mie carte perfettamente ordinate nell’armadio, indecisa se ringraziare un anonimo benefattore o infuriarmi perché qualcuno aveva messo le mani fra i miei documenti.
Dopo quella che mi parve essere più o meno un’ora, di Corinne non c’era traccia. Tenuto conto del ritardo con cui ero arrivata in ufficio e del languore che già avvertivo, ipotizzai che la pausa stesse per iniziare. Attesi con fiducia gli ultimi istanti che presumibilmente mi separavano dal delicato avviso acustico che avrebbe concesso cinquanta minuti di pausa pranzo a tutti i dipendenti stipendiati a tempo, dei quali facevo orgogliosamente parte. Dopo aver continuato a lavorare ancora per un po’, mi stupii che non si udisse alcunché.
Secondo il mio stomaco eravamo nel pieno della pausa, e senza indugiare oltre aprii la porta e mi affacciai alla stanza accanto, dove vidi John molto preso dal gioco a carte con il PC.
-Oops!- disse con tono scherzoso chiudendo la schermata quando mi vide.
-John, niente pausa?
Dall’espressione più vacua del solito intuii che non aveva afferrato.
-Sai che ore sono?- aggiunsi quindi.
-Che… ore sono?- fu tutto quel che seppe replicare, nemmeno gli avessi chiesto un prestito senza interessi.
-Ore, tempo, che ora è, John?
-Uhm, proprio non ti capisco, Lola.
-Non hai fame?
-Io? No, perché?
-Perché è ora di pranzo, John?
-Ah, il pranzo, sì. Be’, io ho mangiato qualcosa.- così dicendo aprì un cassetto -Vuoi un po’ del mio panino, Lola?
Non gli risposi, e mi sentii una sciocca. Dopo quell’inutile corsa in ufficio avevo già bruciato probabilmente la metà della mia pausa pranzo. Mi diressi verso l’uscita, con l’intenzione di recarmi al bar al secondo piano. Appena entrata, vidi Corinne seduta a un tavolo, da sola, e mi diressi verso di lei.
-Corinne!- dove sei stata tutta la mattina?
La mia collega mi guardò con un’espressione che mi ricordò quella che John aveva messo qualche istante prima.
-Ciao, Lola. Sono… qui, a prendere un caffè.
-Non hai pranzato?
-Io? Sì, ho mangiato qualcosa, perché?
-No, nulla. E’ solo che il tuo monitor era acceso, e allora ho pensato che saresti rientrata in stanza, e ti ho aspettata…
-Sono qui.
-Sei qui, da quanto?
Corinne non rispose. Sollevò un sopracciglio in segno di sorpresa, guardandomi come se avessi detto qualcosa che l’aveva colpita, ma senza poterla afferrare.
-Da quanto… cosa?
-Da quanto tempo, Corinne?
-Il tempo? Non saprei, oggi c’è il sole, Lola.- si voltò verso la finestra e indicò il cielo. L’espressione di sorpresa di Corinne era svanita, sciolta in una fatua tranquillità.
Pensai che anche quella domenica non avesse saputo resistere alla tentazione e avesse fumato spinelli a man bassa con quell’idiota del suo ragazzo, Joseph. Decisi di dedicarmi a quel che avevo colpevolmente trascurato fino a quel momento, vale a dire le legittime esigenze del mio stomaco. Mi voltai verso il bancone e dopo aver adocchiato l’insalata mista più rispondente alla definizione mi accinsi a ordinare. Lo sguardo scivolò involontariamente verso il punto dove normalmente era appeso il grande orologio circolare a cifre romane, sulla parete di fondo dietro al bancone.
-Dov’è il padellone, Jeff?- chiesi al cassiere.
-Cosa dici, Lola? Vuoi una padella dalla cucina? Per farne cosa, scusami?
-L’orologio, Jeff. Il tuo mitico orologio a cifre romane, quello su cui ti ho insegnato io a leggere i numeri che indicano le ore. Il tuo orologio-padellone, quello che hai comperato in Italia e messo lì almeno due anni fa!
Gli avessi chiesto di poter mangiare un cavallo vivo con contorno di stampante laser a colori, sarebbe stato più collaborativo. Sembrava che anche Jeff fosse stato contagiato dall’epidemia di idiozia che aveva soggiogato le migliori (non che ne fossi certa) menti della Mindset.
Finalmente fui punta dal tarlo del dubbio; strattonai il mio vicino, un collega in doppio petto mai visto prima, e mi impossessai del suo polso destro, e poi del sinistro, ma non vi trovai nulla.
-Che maniere!- mi rimproverò, sistemandosi i polsini che erano imperdonabilmente rientrati sotto le maniche della giacca. Feci inutilmente lo stesso con altri due che gli stavano dietro, poi iniziai a chiedere a tutti, uomini, donne, uno dopo l’altro, se potessero essere così gentili da dirmi che ora fosse, ma purtroppo non ci fu nemmeno uno in cui quella semplice domanda provocasse qualcosa di simile a ciò che si chiama una “risposta”. Tutti reagivano con richieste di chiarimento, esclamazioni indignate, espressioni di stupore, quando non di sincero rammarico per la mia condizione di palese e penosa confusione. Qualcuno arrivò a invocare l’intervento di un medico.
Trascorsi anche, inutilmente, circa dieci minuti a complimentarmi per l’ottima riuscita dello scherzo, pregando tutti di tornare alla normalità.
Poi finalmente mi convinsi che era quella la loro normalità.
Senza dare troppe spiegazioni mi precipitai verso l’uscita e raggiunsi Andy, la guardia in servizio al controllo di sicurezza, che aveva appena sostituito Ben.
Lo interruppi mentre parlava al telefono, e lui mi vide così agitata che riattaccò sbrigativamente.
-A che ora hai iniziato il turno, Andy?- gli domandai in affanno.
Andy mi fissò senza fiatare, come se attendesse da me altre parole, che non avevo però intenzione di offrirgli. Doveva accontentarsi di quella semplice domanda, e pretendevo un’altrettanto semplice risposta.
-Andy, ti ho chiesto,- presi fiato -a CHE ORA hai iniziato il tuo turno.
Avevo gridato.
Andy era un giovane ragazzo indiano di poche parole, che amava le cose semplici; il suo vero nome era Jamalaipindiur, e si faceva chiamare Andy al solo scopo di evitare complicazioni. Era evidente che non aveva una risposta soddisfacente, e quindi, semplicemente, taceva.
-E dov’è il segna-tempo?- aggiunsi caritatevolmente, indicando la posizione usuale dell’apparecchio.
Andy si illuminò ed un raggio di luce si insinuò nel buio della mia angoscia.
-Oh, Lola, vuoi dire il vecchio congegno che era appeso lì? Gli operai lo hanno smontato.
-Smontato? Vuoi dire che devono ripararlo?
-Ripararlo? Ma Lola, non sappiamo nemmeno a cosa servisse; è per questo, mi hanno detto, che lo hanno tolto. Era inutile.
-Inutile. D’accordo, Andy.- mi fermai per catturare tutta l’attenzione che era in grado di concedermi, e in quell’istante con la coda dell’occhio intravidi Ben, il suo collega che aveva appena staccato, che stava accendendo la motocicletta in cortile -Ascoltami bene: quando, lo hanno tolto?
Andy tornò a tacere.
Mi lanciai oltre la porta girevole e fermai Ben mentre indossava il casco. Il motore della sua Kawasaki era già acceso e lui smanettava orgogliosamente con l’acceleratore, compiacendosi di quello sfoggio di virilità. Anche quella volta non perse l’occasione di provarci.
-Andiamo a casa tua, Lola?- mi propose sorridendo.
-Ben, piantala, subito. Ho una domanda da farti.
-Sì, cioccolatino, dimmi pure.
-Ben, come facevi a sapere che sarebbe entrato Andy a sostituirti?
-Diamine, Lola! E’ il nostro lavoro.
-Ma certo, Ben. Voglio dire, come facevi a sapere quando sarebbe arrivato?
Anche Ben si bloccò come se avessi parlato arabo. Capii che quella parola, quando, aveva la capacità di paralizzare il pensiero in qualunque interlocutore.
Ben pensò che non era aria, indossò il casco e partì con un gran rombo.
Io invece sentivo il cuore che mi batteva nella testa, e il respiro che si accorciava pericolosamente. Le tempie mi battevano come un treno in corsa e dovetti sedermi sul muretto del cortile. Guardai il cielo di quella fredda giornata; fu solo suggestione, ma le nubi, così basse, mi sembrarono ferme.
Le vaghe intuizioni che durante la mattinata erano rimaste isolate l’una dall’altra si composero in un’immagine tanto irreale quanto veritiera.
Tutti quanti avevano dimenticato cosa fosse il tempo. Tutti quanti, tranne me.
II.
Ebbi voglia di gridare.
Ebbi voglia di mettere tutti di fronte alla loro soffocante pazzia. Di aprire i loro occhi sul nulla che riempiva i loro giorni senza tempo, vuoti come un mare senz’acqua.
Avevo ormai escluso tutte le ipotesi che potevano spiegare lo scenario surreale in cui sentivo di essere precipitata.
Non era uno scherzo. Non era un incubo, ero sempre stata ben sveglia. Non avevo mai amato le droghe, e mi sforzai di ricordare se avessi preso farmaci. Esclusi anche le radiazioni o un qualche effetto ambientale tipo tempesta solare o magnetica; mi parevano stramberie inverosimili da cinematografia di ultima classe, e poi non era pensabile che io fossi l’unica a subirle.
No, non potevo che aggrapparmi alla realtà come un naufrago che stringe i denti sull’ultimo pezzo di legno rimasto a galla, pur sapendo che non serve proprio a nulla. Ma forse io avevo qualche possibilità in più di un uomo solo e morituro fra gli abissi di un oceano. Dopotutto, intorno a me c’era ancora un mondo, anche se non reputavo più di conoscerlo davvero. E poi, smemorati, ingannati o impazziti, c’erano ancora loro. Gli altri.
Degli operai avevano staccato la macchina segna-tempo dal muro dell’atrio della Mindset, e l’idea di questa semplice operazione mi dette fiducia. Poteva significare che c’era qualcuno dietro a quella che poteva dunque essere un’immensa simulazione. Qualcuno che intenzionalmente e colpevolmente aveva deciso di cancellare le tracce della verità. Una verità che, per motivi che ignoravo, solo io ricordavo ancora.
Tornai alla BMW di Marco e misi in moto.
Dovevo cercare i segni dell’esistenza del tempo. Se qualcuno aveva davvero fermato il suo scorrere, solo due giorni prima (tale era il mio ricordo, ma quanto poteva valere ormai?), poteva aver già distrutto tutto ciò che lo misurava e tutto ciò che da esso dipendeva?
Sperai di no. Distruggere il tempo richiedeva tempo.
Mi sorpresi a cercare di capire quando esattamente fosse iniziato l’incubo, e il fatto che la domanda fosse ormai abbastanza priva di senso mi fece rendere conto che anche io stessa iniziavo a ragionare come tutti gli altri.
Era tranquillità, o indifferenza, la loro? Ed io, anch’io sarei diventata così serena, così vuota?
Doveva essere iniziato tutto a casa di Marco, dopo che eravamo stati insieme. Ricordavo che avevamo sentito i dodici rintocchi della mezzanotte, e ne dedussi che fino a quel momento il tempo era esistito; ricordai la mia fuga a casa nella notte, e quella sensazione di torpore che avevo vissuto il giorno dopo, quando era nevicato, e il mio addormentarmi, e quel senso di spaesamento. Sì, allora era già cominciato tutto. Poi tornai con la mente alla mattina di quello stesso giorno, che mi ostinavo a chiamare lunedì, e a quel cruscotto d’auto senza uno straccio di orologio. E a Marco, che non capivo che fine avesse fatto.
Non avevo ancora ingranato la prima; ero sommersa dai miei pensieri.
Guardai di fronte a me, dietro al volante.
Pensai che se il tempo era stato cancellato, non doveva esistere nemmeno il concetto di velocità. Potevo correre veloce con quell’auto? O pur andando forte, sarei stata io l’unica a considerare “veloce” la mia corsa? Proprio Marco quella sera aveva perso quasi un’ora a tentare di spiegarmi la differenza fra le miglia orarie britanniche e i chilometri orari europei; sorrisi, pensando come quel discorso così stupido e maschile mi potesse tornare utile.
Da quell’intuizione scaturì un brivido di speranza: vidi infatti che l’auto aveva ancora un tachimetro. Ma ad uno sguardo più attento, mi accorsi che i numeri su cui l’ago si muoveva non sembravano indicare velocità; mancava ovunque la scritta "MPH". Ricordavo bene, l’avevo vista il giorno prima. La scrivono grande e grossa, apposta per noi inglesi. Per rassicurarci di essere venuti incontro alla nostra strampalata resistenza al sistema metrico decimale.
Niente miglia orarie, niente velocità. E quindi, niente tempo.
Mi chiesi cosa diavolo misurassero allora quei numeri, e poi come fosse possibile che elementi concreti, materiali, fisici, come il cruscotto di un’automobile, il segnatempo di un ufficio, o un orologio appeso a un muro, potessero mutare o scomparire, così, da un giorno all’altro.
Come diamine poteva funzionare l’intera società, senza tenere il conto del tempo?
Partii. Il sole stava calando; mi chiesi se il fatto che arrivava la sera significasse qualcosa per gli altri. Mi chiesi se fra le parole ormai prive del loro senso, della loro cosa, ci fossero anche quelle che indicavano il giorno, la notte, l’estate, l’inverno. Mi chiesi se la gente avrebbe sentito ancora il profumo della primavera, se gli uomini si sarebbero innamorati delle donne davanti al tramonto, se i ragazzi sarebbero scappati dalle loro case per andare a spiare l’alba sul mare; mi chiesi se quell’inverno freddo, che immobilizzava la mia Londra in un’immensa scultura di ghiaccio, sarebbe durato per sempre.
Mi chiesi se quella parola, sempre, che indicava l’unica realtà temporale possibile in quel mondo paralizzato, fosse ancora un termine comprensibile.
Tornai di gran carica sulla M4. Se la velocità non esisteva, non c’era nemmeno un limite di velocità.
Schiacciai l’acceleratore a tavoletta.
Naturalmente, come avevo già notato andando in ufficio, non esisteva più nemmeno la fretta, e sull’autostrada la maggior parte dei mezzi circolanti procedevano con una calma quasi irritante.
Con mia grande sorpresa, dopo poche miglia un’auto della polizia mi affiancò e mi intimò di fermarmi. Proprio non capivo cosa avrebbero avuto da rimproverarmi, e anzi, sperai che la parola “velocità” sarebbe saltata fuori nell’immancabile ramanzina. Sarei stata felice di finire persino in prigione se così fosse stato.
Il poliziotto, un giovane che trattava il suo collega anziano come se il pivellino fosse quello, fu inflessibile; avevo infranto il limite. Esplosi in un’espressione di giubilo che si soffocò quando l’agente completò la frase: avevo infatti infranto il limite di potenza, che il loro rilevatore all’infrarosso aveva misurato. Andavo troppo forte, e non, come avrei sperato, troppo veloce.
Quel mondo impazzito senza tempo riusciva ancora a governarsi, nonostante tutto.
Ripresi il viaggio “a potenza moderata”, e mi resi conto che quella parola aveva iniziato a sostituire la vecchia, “velocità”, nei miei ragionamenti; ecco cosa significavano quei numeri sul cruscotto: erano diventati valori di potenza.
Pensai a quante decine, centinaia, migliaia di parole, dovevano aver perso l’intero corpo del loro significato, o perlomeno subito amputazioni o decapitazioni.
Il tempo era ormai solo il clima, la velocità era caduta nell’oblio, un appuntamento poteva essere nulla più che un luogo, minuti il plurale di un aggettivo di grandezza, anni, giorni e mesi erano probabilmente parole inesistenti, cui io sola continuavo a dare un valore che in un mondo simile era del tutto insignificante.
Tremai, al timore che presto o tardi avrei potuto dimenticare tutto anch’io.
Eppure non mi rassegnai; parcheggiai nel sotterraneo della stazione di Paddington e salii nell’atrio per controllare le tabulazioni delle partenze. Da lontano, in mezzo a una folla che non conosceva il fastidio della fretta, né l’ansia del ritardo, mi accorsi che, a differenza della macchina segna-tempo della Mindset, i tabelloni elettronici erano ancora al loro posto; una residua speranza mi fece così accelerare il passo, ma il mio sforzo di individuare un orario di partenza accanto ad ogni destinazione fu vano; c’era solo il numero del binario. Stavolta mi astenni dall’andare in giro a chiedere ai viaggiatori come facessero a sapere in quale momento i treni partivano; preferivo evitare di essere guardata nuovamente come un’idiota, e per giunta da perfetti sconosciuti. Pensai anche che andare all’aeroporto fosse inutile, pur chiedendomi come diavolo gli aerei potessero evitare collisioni senza l’assegnazione dei tempi di decollo e discesa.
Poi, ferma, immobile, cristallizzata in mezzo alla folla in moto tranquillo della stazione di Paddington all’ora del mai, mi venne un’idea, ma pensai subito che avrei dovuto fare attenzione nel metterla in atto.
Cercai un ragazzo in partenza, e non fu difficile trovarlo. Sguainai tutte le parti distintive del mio essere donna e mi avvicinai a lui in una densa nube di feromoni di una primavera immaginaria. Ad ogni passo, sperai che la chimica fra i sessi avesse ancora la sua cara, vecchia e piacevole valenza.
-Buongiorno,- dissi quando fui arrivata a breve distanza -posso avere il piacere di scambiare due parole con lei?
-Certamente.- rispose il ragazzo senza esitare, ma non mostrando il trasporto che avevo cercato.
-Sono una giornalista e sto lavorando ad un pezzo sui trasporti a Londra. Avrei bisogno di porle qualche domanda.
-Faccia pure.
-Lei non deve partire?
-Naturalmente, ma risponderò alle sue domande.
-Non ha fretta, dunque- buttai lì, ma nemmeno se ne accorse.
Dopo le domande più insulse che mi vennero in mente per una simile intervista, cercai di trattenerlo. Se il concetto del tempo non esisteva nel dialogo, nella mente, forse il Tempo, quello vero, esisteva comunque e la gente non se ne accorgeva più. Volevo che, ovunque dovesse recarsi, quel tizio perdesse il suo treno. Volevo scatenare l’ira di quell’uomo al fischio di partenza, sperando che l’emozione lo avrebbe portato a tradirsi in qualche modo, a fare un riferimento, anche il più insignificante, sulla necessità di aspettare il treno successivo, o magari sulla impossibilità di restare con me perché il suo treno stava per partire. Qualunque accenno, anche impreciso, vago, approssimativo, primitivo, sul concetto di tempo mi avrebbe resa felice. Ero pronta a tentare di sedurlo, e, se ciò fosse stato inutile come si preannunciava, ad assestargli il mio miglior colpo di tae kwon do, pur di evitare che partisse.
-Supponiamo che…- ripresi - che lei, ecco, continui a partecipare alla mia intervista… restando lontano dal binario.
Mi fermai. Mi resi conto che parlare evitando qualunque riferimento al tempo era quasi impossibile; dovevo continuamente scegliere le parole con estrema attenzione, una per una.
-Supponiamo insomma che lei rimanga qui.- altra pausa -E che, quindi, mentre lei è qui, il suo treno parta. Lei perderebbe il treno, giusto?
-Be’, certamente.- disse, guardandomi con sufficienza.
-La cosa le andrebbe a genio?
-Non avrebbe molta importanza.
-Perché? voglio dire, non sarebbe un problema, dover attendere… mi scusi, intendevo dire, doversi adattare a non partire quando… ecco, rassegnarsi a non partire pur avendo deciso di partire?
-Ma io partirei comunque, signorina. Al binario sette, come al solito. Se non prendessi il treno che parte, prenderei un altro treno che va nello stesso posto. Dallo stesso binario.
-Vuole dire, ehm, il treno successivo?
-Un altro treno, ecco tutto. Non quello, vede?- indicò il suo convoglio -Ma un altro treno per Brighton, sempre dal binario sette.
Il treno partì mentre parlava. Jonathan, era così che si chiamava quell’uomo, non si scompose. Io lo guardai attentamente, e lui non sembrò minimamente irritato dal fatto che per parlare con me aveva perso il suo treno. Impassibile, distaccato, atono, guardò il convoglio sfilare lentamente lungo il binario sette. Quel tizio non aveva mai avuto fretta. Non aveva orario di partenza, né di arrivo. Non poteva nemmeno sapere che giorno fosse.
Restai a fissare il suo sguardo vacuo per venti, forse trenta secondi, e quando mi voltai nuovamente verso il binario sette, vidi un altro convoglio pronto a partire, come se fosse stato sempre lì. Non mi ero nemmeno accorta che il secondo treno stesse arrivando.
Mi arresi di fronte all’evidenza: quel mondo era fermo, bloccato in una fissità estenuante, abbarbicato alle sue immobili ripetizioni. Io invece sentivo dentro di me ancora tutta la mia voglia di muovermi.
Ma Ero sola.
Stavo per congedarmi da quell’insopportabile individuo, quando un gruppo di ragazzini in corsa mi evitò per un soffio.
Le mie labbra lasciarono cadere, ormai per inerzia, un’ultima domanda, con la rassegnazione di chi sta per gettare la spugna.
-Lei ha figli?
-Sì.
-E che età… voglio dire, sono grandi?
-La femmina è molto alta, il maschio no. Perché me lo chiede?
-Cosa vorrebbe che facessero quando saranno grandi?
-Ma che diavolo significa?
-Quando cresceranno, cosa pensa che faranno?
-(…)
-Quando suo figlio, come si chiama…
-Andrew.
-Quando Andrew sarà un uomo…
-Signorina, cosa le fa pensare una cosa del genere? Un ragazzo è un ragazzo.- proruppe stizzito.
-I ragazzi crescono…- replicai, ma subito interruppi quella riflessione e balzai alla conclusione logica a cui portava l’incapacità di quell’uomo di pensare alla normale evoluzione della vita di un essere umano.
-Lei ha paura della morte?- gli sussurrai, con le lacrime che iniziavano a tradirmi. Intuivo che, a meno che qualcuno non li uccidesse, quella gente non poteva neppure morire; forse era per questo che la loro non sembrava affatto una vita.
Jonathan si chinò per prendere la valigia e mi salutò.
-Aspetti! Lei…- un sospetto atroce mi si infilò nella testa; era qualcosa cui non avevo pensato fino a quel momento -Lei ricorda la nascita dei suoi figli?
Se ne andò dopo avermi degnato di uno sguardo caritatevole che si era rapidamente trasformato in indifferenza.
Per me, questo fu davvero troppo.
Ebbi voglia di mettere tutti di fronte alla loro soffocante pazzia. Di aprire i loro occhi sul nulla che riempiva i loro giorni senza tempo, vuoti come un mare senz’acqua.
Avevo ormai escluso tutte le ipotesi che potevano spiegare lo scenario surreale in cui sentivo di essere precipitata.
Non era uno scherzo. Non era un incubo, ero sempre stata ben sveglia. Non avevo mai amato le droghe, e mi sforzai di ricordare se avessi preso farmaci. Esclusi anche le radiazioni o un qualche effetto ambientale tipo tempesta solare o magnetica; mi parevano stramberie inverosimili da cinematografia di ultima classe, e poi non era pensabile che io fossi l’unica a subirle.
No, non potevo che aggrapparmi alla realtà come un naufrago che stringe i denti sull’ultimo pezzo di legno rimasto a galla, pur sapendo che non serve proprio a nulla. Ma forse io avevo qualche possibilità in più di un uomo solo e morituro fra gli abissi di un oceano. Dopotutto, intorno a me c’era ancora un mondo, anche se non reputavo più di conoscerlo davvero. E poi, smemorati, ingannati o impazziti, c’erano ancora loro. Gli altri.
Degli operai avevano staccato la macchina segna-tempo dal muro dell’atrio della Mindset, e l’idea di questa semplice operazione mi dette fiducia. Poteva significare che c’era qualcuno dietro a quella che poteva dunque essere un’immensa simulazione. Qualcuno che intenzionalmente e colpevolmente aveva deciso di cancellare le tracce della verità. Una verità che, per motivi che ignoravo, solo io ricordavo ancora.
Tornai alla BMW di Marco e misi in moto.
Dovevo cercare i segni dell’esistenza del tempo. Se qualcuno aveva davvero fermato il suo scorrere, solo due giorni prima (tale era il mio ricordo, ma quanto poteva valere ormai?), poteva aver già distrutto tutto ciò che lo misurava e tutto ciò che da esso dipendeva?
Sperai di no. Distruggere il tempo richiedeva tempo.
Mi sorpresi a cercare di capire quando esattamente fosse iniziato l’incubo, e il fatto che la domanda fosse ormai abbastanza priva di senso mi fece rendere conto che anche io stessa iniziavo a ragionare come tutti gli altri.
Era tranquillità, o indifferenza, la loro? Ed io, anch’io sarei diventata così serena, così vuota?
Doveva essere iniziato tutto a casa di Marco, dopo che eravamo stati insieme. Ricordavo che avevamo sentito i dodici rintocchi della mezzanotte, e ne dedussi che fino a quel momento il tempo era esistito; ricordai la mia fuga a casa nella notte, e quella sensazione di torpore che avevo vissuto il giorno dopo, quando era nevicato, e il mio addormentarmi, e quel senso di spaesamento. Sì, allora era già cominciato tutto. Poi tornai con la mente alla mattina di quello stesso giorno, che mi ostinavo a chiamare lunedì, e a quel cruscotto d’auto senza uno straccio di orologio. E a Marco, che non capivo che fine avesse fatto.
Non avevo ancora ingranato la prima; ero sommersa dai miei pensieri.
Guardai di fronte a me, dietro al volante.
Pensai che se il tempo era stato cancellato, non doveva esistere nemmeno il concetto di velocità. Potevo correre veloce con quell’auto? O pur andando forte, sarei stata io l’unica a considerare “veloce” la mia corsa? Proprio Marco quella sera aveva perso quasi un’ora a tentare di spiegarmi la differenza fra le miglia orarie britanniche e i chilometri orari europei; sorrisi, pensando come quel discorso così stupido e maschile mi potesse tornare utile.
Da quell’intuizione scaturì un brivido di speranza: vidi infatti che l’auto aveva ancora un tachimetro. Ma ad uno sguardo più attento, mi accorsi che i numeri su cui l’ago si muoveva non sembravano indicare velocità; mancava ovunque la scritta "MPH". Ricordavo bene, l’avevo vista il giorno prima. La scrivono grande e grossa, apposta per noi inglesi. Per rassicurarci di essere venuti incontro alla nostra strampalata resistenza al sistema metrico decimale.
Niente miglia orarie, niente velocità. E quindi, niente tempo.
Mi chiesi cosa diavolo misurassero allora quei numeri, e poi come fosse possibile che elementi concreti, materiali, fisici, come il cruscotto di un’automobile, il segnatempo di un ufficio, o un orologio appeso a un muro, potessero mutare o scomparire, così, da un giorno all’altro.
Come diamine poteva funzionare l’intera società, senza tenere il conto del tempo?
Partii. Il sole stava calando; mi chiesi se il fatto che arrivava la sera significasse qualcosa per gli altri. Mi chiesi se fra le parole ormai prive del loro senso, della loro cosa, ci fossero anche quelle che indicavano il giorno, la notte, l’estate, l’inverno. Mi chiesi se la gente avrebbe sentito ancora il profumo della primavera, se gli uomini si sarebbero innamorati delle donne davanti al tramonto, se i ragazzi sarebbero scappati dalle loro case per andare a spiare l’alba sul mare; mi chiesi se quell’inverno freddo, che immobilizzava la mia Londra in un’immensa scultura di ghiaccio, sarebbe durato per sempre.
Mi chiesi se quella parola, sempre, che indicava l’unica realtà temporale possibile in quel mondo paralizzato, fosse ancora un termine comprensibile.
Tornai di gran carica sulla M4. Se la velocità non esisteva, non c’era nemmeno un limite di velocità.
Schiacciai l’acceleratore a tavoletta.
Naturalmente, come avevo già notato andando in ufficio, non esisteva più nemmeno la fretta, e sull’autostrada la maggior parte dei mezzi circolanti procedevano con una calma quasi irritante.
Con mia grande sorpresa, dopo poche miglia un’auto della polizia mi affiancò e mi intimò di fermarmi. Proprio non capivo cosa avrebbero avuto da rimproverarmi, e anzi, sperai che la parola “velocità” sarebbe saltata fuori nell’immancabile ramanzina. Sarei stata felice di finire persino in prigione se così fosse stato.
Il poliziotto, un giovane che trattava il suo collega anziano come se il pivellino fosse quello, fu inflessibile; avevo infranto il limite. Esplosi in un’espressione di giubilo che si soffocò quando l’agente completò la frase: avevo infatti infranto il limite di potenza, che il loro rilevatore all’infrarosso aveva misurato. Andavo troppo forte, e non, come avrei sperato, troppo veloce.
Quel mondo impazzito senza tempo riusciva ancora a governarsi, nonostante tutto.
Ripresi il viaggio “a potenza moderata”, e mi resi conto che quella parola aveva iniziato a sostituire la vecchia, “velocità”, nei miei ragionamenti; ecco cosa significavano quei numeri sul cruscotto: erano diventati valori di potenza.
Pensai a quante decine, centinaia, migliaia di parole, dovevano aver perso l’intero corpo del loro significato, o perlomeno subito amputazioni o decapitazioni.
Il tempo era ormai solo il clima, la velocità era caduta nell’oblio, un appuntamento poteva essere nulla più che un luogo, minuti il plurale di un aggettivo di grandezza, anni, giorni e mesi erano probabilmente parole inesistenti, cui io sola continuavo a dare un valore che in un mondo simile era del tutto insignificante.
Tremai, al timore che presto o tardi avrei potuto dimenticare tutto anch’io.
Eppure non mi rassegnai; parcheggiai nel sotterraneo della stazione di Paddington e salii nell’atrio per controllare le tabulazioni delle partenze. Da lontano, in mezzo a una folla che non conosceva il fastidio della fretta, né l’ansia del ritardo, mi accorsi che, a differenza della macchina segna-tempo della Mindset, i tabelloni elettronici erano ancora al loro posto; una residua speranza mi fece così accelerare il passo, ma il mio sforzo di individuare un orario di partenza accanto ad ogni destinazione fu vano; c’era solo il numero del binario. Stavolta mi astenni dall’andare in giro a chiedere ai viaggiatori come facessero a sapere in quale momento i treni partivano; preferivo evitare di essere guardata nuovamente come un’idiota, e per giunta da perfetti sconosciuti. Pensai anche che andare all’aeroporto fosse inutile, pur chiedendomi come diavolo gli aerei potessero evitare collisioni senza l’assegnazione dei tempi di decollo e discesa.
Poi, ferma, immobile, cristallizzata in mezzo alla folla in moto tranquillo della stazione di Paddington all’ora del mai, mi venne un’idea, ma pensai subito che avrei dovuto fare attenzione nel metterla in atto.
Cercai un ragazzo in partenza, e non fu difficile trovarlo. Sguainai tutte le parti distintive del mio essere donna e mi avvicinai a lui in una densa nube di feromoni di una primavera immaginaria. Ad ogni passo, sperai che la chimica fra i sessi avesse ancora la sua cara, vecchia e piacevole valenza.
-Buongiorno,- dissi quando fui arrivata a breve distanza -posso avere il piacere di scambiare due parole con lei?
-Certamente.- rispose il ragazzo senza esitare, ma non mostrando il trasporto che avevo cercato.
-Sono una giornalista e sto lavorando ad un pezzo sui trasporti a Londra. Avrei bisogno di porle qualche domanda.
-Faccia pure.
-Lei non deve partire?
-Naturalmente, ma risponderò alle sue domande.
-Non ha fretta, dunque- buttai lì, ma nemmeno se ne accorse.
Dopo le domande più insulse che mi vennero in mente per una simile intervista, cercai di trattenerlo. Se il concetto del tempo non esisteva nel dialogo, nella mente, forse il Tempo, quello vero, esisteva comunque e la gente non se ne accorgeva più. Volevo che, ovunque dovesse recarsi, quel tizio perdesse il suo treno. Volevo scatenare l’ira di quell’uomo al fischio di partenza, sperando che l’emozione lo avrebbe portato a tradirsi in qualche modo, a fare un riferimento, anche il più insignificante, sulla necessità di aspettare il treno successivo, o magari sulla impossibilità di restare con me perché il suo treno stava per partire. Qualunque accenno, anche impreciso, vago, approssimativo, primitivo, sul concetto di tempo mi avrebbe resa felice. Ero pronta a tentare di sedurlo, e, se ciò fosse stato inutile come si preannunciava, ad assestargli il mio miglior colpo di tae kwon do, pur di evitare che partisse.
-Supponiamo che…- ripresi - che lei, ecco, continui a partecipare alla mia intervista… restando lontano dal binario.
Mi fermai. Mi resi conto che parlare evitando qualunque riferimento al tempo era quasi impossibile; dovevo continuamente scegliere le parole con estrema attenzione, una per una.
-Supponiamo insomma che lei rimanga qui.- altra pausa -E che, quindi, mentre lei è qui, il suo treno parta. Lei perderebbe il treno, giusto?
-Be’, certamente.- disse, guardandomi con sufficienza.
-La cosa le andrebbe a genio?
-Non avrebbe molta importanza.
-Perché? voglio dire, non sarebbe un problema, dover attendere… mi scusi, intendevo dire, doversi adattare a non partire quando… ecco, rassegnarsi a non partire pur avendo deciso di partire?
-Ma io partirei comunque, signorina. Al binario sette, come al solito. Se non prendessi il treno che parte, prenderei un altro treno che va nello stesso posto. Dallo stesso binario.
-Vuole dire, ehm, il treno successivo?
-Un altro treno, ecco tutto. Non quello, vede?- indicò il suo convoglio -Ma un altro treno per Brighton, sempre dal binario sette.
Il treno partì mentre parlava. Jonathan, era così che si chiamava quell’uomo, non si scompose. Io lo guardai attentamente, e lui non sembrò minimamente irritato dal fatto che per parlare con me aveva perso il suo treno. Impassibile, distaccato, atono, guardò il convoglio sfilare lentamente lungo il binario sette. Quel tizio non aveva mai avuto fretta. Non aveva orario di partenza, né di arrivo. Non poteva nemmeno sapere che giorno fosse.
Restai a fissare il suo sguardo vacuo per venti, forse trenta secondi, e quando mi voltai nuovamente verso il binario sette, vidi un altro convoglio pronto a partire, come se fosse stato sempre lì. Non mi ero nemmeno accorta che il secondo treno stesse arrivando.
Mi arresi di fronte all’evidenza: quel mondo era fermo, bloccato in una fissità estenuante, abbarbicato alle sue immobili ripetizioni. Io invece sentivo dentro di me ancora tutta la mia voglia di muovermi.
Ma Ero sola.
Stavo per congedarmi da quell’insopportabile individuo, quando un gruppo di ragazzini in corsa mi evitò per un soffio.
Le mie labbra lasciarono cadere, ormai per inerzia, un’ultima domanda, con la rassegnazione di chi sta per gettare la spugna.
-Lei ha figli?
-Sì.
-E che età… voglio dire, sono grandi?
-La femmina è molto alta, il maschio no. Perché me lo chiede?
-Cosa vorrebbe che facessero quando saranno grandi?
-Ma che diavolo significa?
-Quando cresceranno, cosa pensa che faranno?
-(…)
-Quando suo figlio, come si chiama…
-Andrew.
-Quando Andrew sarà un uomo…
-Signorina, cosa le fa pensare una cosa del genere? Un ragazzo è un ragazzo.- proruppe stizzito.
-I ragazzi crescono…- replicai, ma subito interruppi quella riflessione e balzai alla conclusione logica a cui portava l’incapacità di quell’uomo di pensare alla normale evoluzione della vita di un essere umano.
-Lei ha paura della morte?- gli sussurrai, con le lacrime che iniziavano a tradirmi. Intuivo che, a meno che qualcuno non li uccidesse, quella gente non poteva neppure morire; forse era per questo che la loro non sembrava affatto una vita.
Jonathan si chinò per prendere la valigia e mi salutò.
-Aspetti! Lei…- un sospetto atroce mi si infilò nella testa; era qualcosa cui non avevo pensato fino a quel momento -Lei ricorda la nascita dei suoi figli?
Se ne andò dopo avermi degnato di uno sguardo caritatevole che si era rapidamente trasformato in indifferenza.
Per me, questo fu davvero troppo.
III.
Tornai alla BMW, salii, misi in moto e mi diressi da Marco.
Piangevo, e mi sentivo sola come una goccia impazzita di mille colori, alla deriva in un oceano piatto e fermo fotografato in bianco e nero.
L’appartamento del bell’italiano si trovava in una delle zone più alla moda della Londra del terzo millennio, molto in alto all’interno di uno dei nuovi grattacieli residenziali per manager e liberi professionisti. Mentre la sopraelevata mi portava laggiù, nel cuore della grande ansa del Tamigi, notai che la skyline dei Docklands non aveva perso il suo fascino. Ma persino lì, nell’epicentro dei terremoti affaristici e finanziari di una volta, una calma indifferente regnava sovrana.
Raggiunsi il parcheggio sotterraneo e con il telecomando entrai e sistemai la BMW esattamente dove l’avevo trovata, un paio di giorni prima.
Mi recai agli ascensori, che erano riservati ai soli residenti. Non avevo la chiave e citofonai.
Marco rispose con una voce assonnata, ma mi parve che la mia richiesta di salire lo scuotesse un poco.
-Lola! Sali pure.
Mi mandò giù un ascensore e io salii fino al ventiquattresimo piano. Le misure di sicurezza per l’accesso non erano affatto mutate.
In breve fui alla porta del suo appartamento.
Quando aprì, lui indossava un impeccabile abito chiaro italiano, che mi sembrò perfettamente intonato al sorriso con cui mi accolse, ampio, leggero e tranquillizzante.
-Lola, entra, ti prego!
Mi accolse come se avermi lì fosse un fatto del tutto ovvio e normale. Non provai nulla delle emozioni che normalmente quell’uomo sapeva scatenare in me. Era come se fosse stata un’altra persona.
Entrai.
L’appartamento era tirato a lucido, come fosse stato appena comprato e arredato. Era lo stesso luogo che conoscevo e non lo era più. Proprio come il suo proprietario.
Volli farlo ricordare. Lui, o almeno il lui dell’epoca in cui c’era il tempo, era stato troppo importante per non valere un tentativo. Non fu facile descrivere gli eventi, così come li ricordavo io, senza poter fare affidamento sui giorni e le ore.
E fu tutto inutile.
Marco non ricordava i dodici rintocchi che avevamo udito abbracciati sotto le lenzuola, né ricordava di essersi svegliato da solo.
Eppure, sapeva bene chi ero, e cosa amavamo fare insieme, e da come parlava conosceva me, i miei gusti, i miei segreti. Era diventato un uomo senza passione, proprio come il resto del mondo. Ero arrivata lì alla disperata ricerca del contrario, ma avevo fallito.
Marco non ricordava di aver notato l’assenza della BMW, eppure quando gli porsi le chiavi dell’auto e lo costrinsi a riflettere ammise che aveva usato diversi taxi, ma non era in grado di specificare il perché. Anche la sua quotidianità, come per tutti gli altri, era fatta di falsi movimenti scanditi in modo automatico, asettico, e privi di causa, significato o finalità.
Gli chiesi di poter andare nella stanza degli orologi, che era la parte di quella casa che amavo di più.
Ero terrorizzata dalla possibilità che mi rispondesse con uno sguardo vacuo, e che quel luogo non fosse mai esistito, e invece sorrise e mi ci portò.
Ero sempre stata affascinata da quella stanza, di cui ricordavo le pareti ricoperte di orologi di ogni forma, tipo e provenienza; centinaia di ovali, quadrati, rettangoli, rombi, casse, quadranti e display; orologi antichi e moderni, sveglie, vecchie pendole, orologi a cucù, cronometri digitali; orologi grandi e piccoli, ovunque, affastellati con gusto e precisione. Quello che mi piaceva di più era il loro suono d’insieme; quell’armonia disarticolata di passi, ronzii, tic-tac e battiti, tutti uguali e tutti diversi, che scandivano all’unisono il ritmo della vita.
Quando Marco aprì la porta, il silenzio che invadeva l’aria mi aggredì come il tonfo sordo di un’esplosione. L’assenza di quel suono fu come un’onda d’urto al contrario, che risucchiava all’interno di quel luogo in cui la vita era stata sopraffatta dal vuoto spinto.
Tutti gli strumenti erano fermi, ed indicavano la stessa ora, le cinque e un quarto. Dovetti uscire subito, e sentii la nausea aggredirmi violenta, irriguardosa che fossi al cospetto di quello che avevo considerato l’uomo della mia vita. Sotto gli occhi stupiti di Marco, mi rifugiai nel bagno, dove attesi che passasse.
Smisi di tentare.
Non gli chiesi se conoscesse il significato di quegli strumenti; non gli chiesi se sapeva leggerli, non gli chiesi di ricordare le ore che amavo passare là dentro, con lui. In un residuo rigurgito di amor proprio, volli evitare di farmi ancora più male, e me ne andai.
Seduta in treno, vedevo i palazzi sfilare al di là del vetro, nel quale all’improvviso, complice lo sfondo scuro di un grattacielo in ombra, vidi riflessa la mia immagine, un volto muto e immobile come quelli che vedevo ovunque intorno a me.
Londra era coperta dalle nubi, le compagne di sempre, ma non sembrava che stesse per piovere. Il grande freddo dei giorni scorsi sembrava stesse abbandonando la città.
Notai con piacere una falla nella cortina delle nuvole, attraverso la quale alcuni raggi di sole raggiungevano il suolo illuminando proprio l’area di un piccolo verde parco; fu quella luce a liberare un ricordo che riaffiorò come un pezzetto di sughero sulla superficie. Le cinque e un quarto, l’orario che tutti gli orologi segnavano nella stanza a casa di Marco. Era l’ora del mattino alla quale avevo lasciato quel posto, due giorni prima.
Sentii improvvisa la voglia di muovermi. Mi alzai e scesi dal treno, pur non sapendo affatto dove fossi..
Mentre mi muovevo, spinta da qualcosa che ignoravo da dove venisse, sentivo i miei ricordi sbiadire. Dovevo fare in fretta; qualunque cosa avesse causato la fine del tempo stava cominicnado a fare effetto anche in me. Mi resi conto che diventava sempre più difficile tenere a mente il significato di alcune parole, il senso stesso del fluire degli eventi, dell’avvicendarsi degli istanti l’uno sull’altro. Tutto rischiava di appiattirsi in quella fotografia del mondo in cui mi sentivo prigioniera. Dovevo davvero far presto; a far cosa, non lo sapevo nemmeno io. Sapevo solo che dovevo muovermi: era importante trovare un posto dove quella immobilità non esistesse; un luogo che, per la sua stessa natura, fosse immune dalla paralisi.
Il treno si muoveva sempre più lentamente, mi sembrò addirittura che fosse prossimo a fermarsi. Pensavo che la fine del tempo avrebbe portato proprio a quello: tutto si sarebbe potuto fermare. Una volta esaurita la spinta inerziale che in qualche modo era ancora presente, il mondo si sarebbe bloccato per sempre, ed io con lui.
Non potevo permetterlo.
Scesi alla stazione successiva, dove, sul lato opposto della banchina, vidi fermo un altro treno che riportava “Shoeburyness” come destinazione. Ricordavo bene quella piccola città alla foce del Tamigi, e le sue belle spiagge, così poco inglesi, sempre deserte a causa del rischio di esercitazioni militari. Mi lasciai andare alla voglia di mare che sentii improvvisa nella pancia e salii a bordo.
Dopo poco arrivai a destinazione.
L’atrio della grande stazione di Shoeburyness era quasi deserto. Corsi via, fuori, più in fretta che potevo. Il cielo verso l’orizzonte era terso, sembrava proprio che la cortina delle nubi avvolgesse l’Inghilterra solo entro i limiti della terraferma. Tutto intorno a me era immobile. Madri stanche a passeggio con le carrozzine, cani al guinzaglio di padroni imbronciati dal troppo sole, coppie di giovani senza più amore.
Sapevo che il mare era molto vicino alla stazione.
Quando arrivai all’acqua mi sembrò di vedere solo una lastra di ghiaccio azzurra, senza onde né increspature. Ero arrivata troppo tardi.
Avevo troppa paura di quel che avrei visto, se mi fossi messa a guardare quel che avevo davanti. Mi sedetti sulla sabbia fredda, vicino all’acqua, e mi abbracciai le ginocchia, nascondendoci la testa nel mezzo. Non avevo più nemmeno la forza di piangere.
Mi addormentai, e non saprò mai per quanto.
Poi quella stessa misteriosa energia che mi aveva portato fin lì, mi obbligò ad alzare la testa. La lamina blu della superficie del mare sembrava immobile, ma io non mi arresi e non distolsi lo sguardo. Lentamente, vidi le prime gocce d’acqua scivolare sulla massa ferma, come lacrime su una tavola d’olio. Altre goccioline si composero poi in un’onda sottile, che si spalmò sopra a tutto e mi venne incontro, fino a lambire i miei piedi nudi.
Pian piano vidi le onde tornare a fluire, e quella massa immobile sciogliersi sotto i miei occhi. Finalmente sentii di nuovo il rumore dell’oceano. Mi stropicciai gli occhi, incredula, e li sentii gonfi di lacrime. Respirai a fondo e inspirai avidamente l’odore del sale, fino a mangiarlo.
Cominciai a contare le onde che arrivavano a riva: una, due, tre, quattro. Cinque, sei, sette, otto.
Musica.
Potevano aver cancellato il tempo fuori di me, ma non erano riusciti a cancellare il mio tempo, dentro di me.
Mi persi a seguire con lo sguardo un gabbiano volteggiare, quando udii un fischio acuto, lontano, poi un altro, e poi ancora un altro.
Tornai alla stazione di volata.
Le carrozzine cigolavano, i vecchi borbottavano, le coppie si amavano.
-Treno per Limehouse, delle ore cinque del pomeriggio, in partenza dal binario sette!- gridava il capotreno.
Caddi a terra, in lacrime. Un signore si avvicinò immediatamente, e mi aiutò a rialzarmi.
-Signorina, si sente bene?
Feci schioccare un bacio sulle labbra, e quello mostrò di aver gradito. Rimase lì, imbambolato, a guardarmi mentre salivo su quel treno.
Chiesi che ora fosse a tutto il vagone, e le risposte che ebbi, in perfetto stile britannico, non si discostavano di più di un minuto l’una dall’altra. Erano le cinque e ventotto-ventinove del pomeriggio.
La prima cosa che feci fu tornare da Marco. Quando aprì la porta gli gettai le braccia al collo e poi mi precipitai nella stanza degli orologi.
Gli chiesi se ricordasse del nostro ultimo incontro, poche ore prima, e lui mi disse di sì. Mi disse che avevo preteso anche allora di entrare in quella stanza, ma che me ne ero allontanata, in preda al panico, perché, disse, non riuscivo a sentire nulla, e lui non aveva capito.
Ma finalmente lo sentivo di nuovo.
Il suono del tempo.
19 commenti:
Sarà che le giornate per me iniziano ore prima,
allungandosi spesso fino al fuso di Roma,
ma a volte qui le ore gocciolano davvero lente.
Il tuo giocar sicuro coi misteri del tempo
mi rapisce ogni volta, sottraendomi per un po' alla routine locale.
Un rapido in corsa "Tempus fugit",
un sospirare teso "Il suono del tempo".
Cadenze note, sensazioni vissute,
che riaffiorano inattese, solleticate dalla tua fantasia.
Più di tutto mi avvince il ritmo.
Sicuro e lieve come un passeggiar di dita
sulla pelle amata.
Un dipinto di parole come questo esige una firma...
Qualche indizio già ce l'hai...
...solo uno ancor ne avrai...
Aerre?
Bada ben non è canino...
...ma non sono un indovino.
...ma ne conta 101...
Geniale! Mi hai anticipata con la rima! Scusa, non voglio fare la preziosa, sono "sotto trip" da quando ho letto "E' solo un vecchio libro"... :-)
Mi piace come scrivi, mi affascina e diverte seguirti lungo sentieri inimmaginabili per la mia mente ancor troppo da contabile. Davvero non capisci chi sono? Un po' mi dispiace... Ma se anche 101 non aiuta, non avrò pudori...
Non mi pare di conoscere alcuna donna in America... non italiana almeno... a meno che tu non mi abbia messo su una falsa pista.
?!? Ma il sole sorge ad est...
Di quanto a est parliamo... ?
101 piani?
Puff... pant... Esatto! :-)
Questa sì che è una sorpresa... non ne avevo la più pallida idea. Che tu mi leggessi, intendo. Devi davvero annoiarti... :-)
Quando rientri? Manca poco, giusto? E come è andata lì?
Ad ogni modo, hai scritto il commento più bello che questo blog abbia mai avuto occasione di ospitare.
Fluisce strano, il tempo, qui. Ore lente che si aggrumano in giornate inafferrabili... Ma ormai intravedo il rientro. Non leggo per noia. Direi piuttosto perché mi piacciono i colori... Scrivi, scrivi...
Firmato: 101
:-)
In tal caso, grazie a questo tuo commento, che inietta un mondo di colore nelle vene di una giornata grigia, rompo gli indugi che mi hanno accompagnato nei giorni scorsi e pubblico un nuovo racconto. Nei prossimi minuti.
E' qui la chiave:
"Ma io volevo che quella storia andasse avanti, e quindi non potevo permettete al tempo di smettere di scorrere troppo a lungo. E’ bello fermare il flusso delle cose, ma solo per alcuni istanti. Poi il movimento della vita deve ripartire."
Lei stessa era fuggita dalla casa di Marco per conservare integri quegli attimi vissuti e il tutto le si era rivoltato contro, come una sfida o una ricerca di significato per sé che non si ritrovava più... "è difficile mantenere la propria identità in un mondo che non ti corrisponde più. Inizi a dubitare anche della tua sanità. Inizi a chiederti se sei tu quella sbagliata".
Ho divorato il tuo racconto e mi ci sono vista dentro; ho fatto anche dei copia incolla di tratti stupendi come quando lei va al mare e piano piano, tra lo scorrere delle onde, rivede il Tempo riprendere vita.
Io personalmente detesto il Tempo e il suo "correre" e spesso rifiuto di leggere l'ora o di fare le cose ad orario; siamo schiavi del tempo anche se in molti casi è utile che ci sia...altrimenti non lo avrebbero inventato e suddiviso.
Eppure ha la sua importanza!
Mi è piaciuto moltomoltomolto!
milazzo annamaria
Grazie Annamaria... il passaggio che citi, sulla spiaggia, è la chiave del racconto, in effetti. Il ritorno alla vita, anzi, la nascita di una nuova vita. Grazie.
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