mercoledì 31 dicembre 2008

Il guardiano

1. Un uomo e un ragazzo

-In queste tre settimane non ho mai smesso di chiedermi perché abbiate pensato proprio a me per questo lavoro assurdo.-disse il ragazzo, ancora incredulo, guardando l’uomo dritto negli occhi e aspettandosi finalmente una risposta soddisfacente.
-Non sono io che prendo queste decisioni.- si limitò a rispondere ancora una volta l’uomo con la consueta aria misteriosa e per nulla messo in difficoltà dalla schiettezza del piccolo -e comunque, sono convinto che dopo i tuoi primi quindici secondi lo comprenderai da solo. E se non sarà così,- aggiunse sorridendo, dopo una pausa in cui ostentò un finto disinteresse -vorrà dire che abbiamo sbagliato persona.
Fuori dalla grande roulotte il crepitio del fuoco si mescolava al suono mesto e lento della chitarra che accompagnava la dolce voce di Jasmine. Le ombre degli uomini raccolti intorno alle fiamme tremolavano sulla gigantografia delle Alpi Dinariche che copriva la parete dietro all’uomo, e il ragazzo ebbe più volte l’impressione che qualcuno ogni tanto li stesse spiando.
Forse era proprio così; del resto, era ormai chiaro che tutti, là fuori, nel piccolo villaggio di vecchi caravan e Mercedes smarmittate, si aspettavano molto da lui.
Il ragazzo abbassò umilmente lo sguardo, poi quelle parole tremende iniziarono a vorticare in ogni angolo della sua testa, e si agitò improvvisamente.
-Quindici secondi?- gridò -come potrà essere tutto finito in quindici secondi, Matthew?
L’uomo rispose con la flemma che possedeva per indole britannica, e aveva consolidato negli anni di convivenza con i suoi amici gitani: -sarà questo il tempo che avrai a disposizione, Azouz. Non un secondo di più. Non dipende da noi, lo sai. Quando si apre il varco abbiamo esattamente quindici secondi di Tempo Standard. E’ in questa finestra che dovrai operare. Potremmo addestrarti, potresti aprire una finestra per vedere semplicemente come te la cavi, come ti muovi in città, come si fa a cercare gli indizi, a interagire con l’ambiente, ma perderemmo un’occasione preziosa, e non è nostra abitudine aprire una finestra solo per gioco o per addestrare qualcuno.
-Le occasioni sono troppo poche!- proruppe poi inaspettatamente, avvicinando il suo volto a quello del piccolo, e tentando di scuoterlo dal torpore della sua incredulità.
-Possiamo aprire solo cento, centodue finestre in ogni anno solare, e non possiamo permetterci di sprecarle. E se ne aprissimo anche solo centocinque, come è successo l’anno in cui abbiamo salvato JFK dall’attentato, le conseguenze potrebbero essere catastrofiche. Nel 1963 ci furono uragani devastanti, e nessuno ha mai sospettato che la terra è stata vicina ad uscire dalla sua orbita il giorno in cui abbiamo aperto la centocinquesima finestra. Il Consiglio del Tempo aveva deciso che bisognava correre il rischio. Il mondo sarebbe precipitato in un’era buia se John Fitzgerald Kennedy fosse morto quell’anno.
Prese fiato, e continuò:
-La guerra in Vietnam sarebbe durata ancora molti anni, e la Guerra Fredda sarebbe diventata infinita. Invece, siamo nel 1997 e non ci sono quasi più conflitti nel mondo da almeno vent’anni. Pensi che saremmo in questa situazione se avessimo “bruciato” troppe finestre, se non avessimo saputo trarre il massimo vantaggio da ogni opportunità?
Il ragazzo ascoltava con attenzione estrema, sforzandosi di cogliere il senso profondo di quelle parole. Capiva cosa il suo mentore gli stesse dicendo, ma era come se la sua mente si rifiutasse di ritenere plausibile un racconto così illogico e visionario.
Eppure, non era certo la prima volta che lo sentiva.
Il giorno in cui aveva conosciuto quello strano personaggio, quella donna che al bar della stazione lo aveva salvato in modo inspiegabile, non poteva non aver intuito che doveva essergli successo qualcosa di eccezionale.
Da quel momento, la sua mente era diventata incline ad accettare l’inaccettabile. Aveva visto il rapinatore, un ragazzo poco più grande di lui, sporco e denutrito, premergli la pistola sulla fronte; aveva sentito esplodere lo sparo. Il tempo si era come dilatato, e in quell’attesa infinita che il suo cranio venisse penetrato dalla pallottola, aveva capito che sarebbe morto prima ancora di aver modo di esserne terrorizzato; poi si era ritrovato improvvisamente dietro al bancone, steso per terra insieme a lei che gli costringeva la testa sul pavimento, e avrebbe giurato che anche i pantaloni che aveva indosso erano cambiati. Era certo di aver messo i jeans quel giorno, poche ore prima, e invece da quando era steso in terra aveva un paio di pantaloni di seta che ignorava persino di possedere.
E poi, come diavolo ci era arrivato a stare steso lì su quelle piastrelle fredde, con lei? Solo un attimo prima aveva sentito l’odore della polvere da sparo bruciata invadergli le narici…
Da quel giorno di solo tre settimane prima la sua vita era cambiata, ma ancora il ragazzo non aveva ben chiaro in che misura.
In seguito, aveva incontrato una serie di personaggi ancora più strani di quella donna; all’inizio li aveva trovati inquietanti e spaventosi; poi si era via via dovuto abituare alla loro stramberia. Era stato in giro per sottoscala, catapecchie e tuguri, aveva conosciuto chiromanti, maghi, zingari e stregoni wo-doo, persone che dietro ad un’immagine di ciarlatani, truffatori, delinquenti patentati nascondevano capacità e doti impensabili.
Una città parallela, nascosta nell’ombra delle periferie e vivissima di notte, i cui abitanti diventavano ogni giorno più amichevoli e affascinanti.
Era così che andava il mondo, gli ripeteva Matthew.
Da secoli, per non dire da millenni.
Barboni, diseredati, vagabondi, ruffiani, maghi, stregoni, psicanalisti falliti, illusionisti, prestigiatori d’avanspettacolo, ipnotizzatori da circo, tutti ben felici della loro finta marginalità che consentiva loro di svolgere fieri e indisturbati il ruolo segreto di benefattori dell’umanità.
Il ruolo segreto dei Guardiani del Tempo.
-Come farò a capire cosa dovrò fare, e come dovrò farla, e soprattutto… dove?- domandò Azouz, sempre più nervoso e preoccupato della responsabilità che incombeva.
-Ricorda bene quel che ti dirò ora, piccolo.
Matthew aveva assunto un’aria rassicurante; era ora che il cucciolo si mettesse in piedi e camminasse senza l’amorevole ditino del sempre presente papà.
-Ci sono sempre e solo due modi di fare quel che va fatto. Il primo è quello che chiamiamo il “Migliore”, il secondo è decisamente il “Peggiore”, ma ci sono casi in cui le cose peggiori sono le uniche da fare e allora vanno fatte.
-Proprio come è successo con me?- chiese il piccolo che, tornato con la mente al giorno della rapina al bar della stazione, cercava inutilmente di strozzare in gola il singhiozzo e si faceva livido in volto, mentre una lacrima tradiva le sue emozioni più nascoste.
-È così, Azouz. Quando Maruska ha aperto la finestra delle finestre, giù alla stazione, in quel bar, non poteva far altro per salvarti la vita. Quel proiettile stava entrando nella tua epidermide, nel momento in cui lei lo ha preso e lo ha spostato qualche centimetro più in alto. E poi, siccome non era tranquilla, lo sai com’è protettiva con voi più piccoli, è l’istinto materno, lei… ti ha sollevato e messo al riparo dietro al bancone; era autorizzata a fare tutto il necessario, in un caso simile, e lo ha fatto. Se ti passi un dito sulla fronte, potrai sentire la tua giovane pelle scalfita in un punto preciso. Era quel proiettile.
-La finestra… delle finestre? - Azouz sentiva che via via che gli venivano date delle risposte, in lui nascevano altre domande.
-È una finestra che viene aperta per selezionare un potenziale guardiano, il cui compito, se sarà stato scelto, sarà poi quello di aprire altre finestre; è per questo che si chiama così. Accade spesso che quando si deve aprire una finestra delle finestre si debba intervenire nel modo Peggiore. Il modo Peggiore è quando spostiamo gli oggetti fisicamente, e in questo caso nel Tempo Standard si generano fenomeni che la gente non è in grado di spiegare. Questi “misteri”, soprattutto se accadono in pubblico, possono scatenare isterismi, paura, alimentare credenze, far pensare ai miracoli, o alla reincarnazione. Quasi tutte le religioni sono nate così, piccolo. E’ da millenni che sorvegliamo il tempo, noi.
Dentro di sé, ascoltando quell’uomo da ormai tre settimane, seguendolo in ogni angolo putrido e buio di Parigi, Azouz sentiva che acquistava la conoscenza che occorreva per capire meglio molte cose prima inspiegabili della storia dell’umanità e, cosa ancor più importante, si sentiva sempre più orgoglioso delle proprie umili origini, la comunità tunisina della Banlieu numero undici, che, grazie a lui, sarebbe entrata a pieno titolo fra le reiette tribù di periferia che donavano coscritti alla Guardia del Tempo.
-Cosa è successo a quel ragazzo, quello che voleva uccidermi?
-Esattamente, piccolo; sei andato dritto al punto. Quello ti ha visto smaterializzarti e finire dietro al bancone, quando era ormai convinto di averti centrato in fronte con la sua Magnum, ed è andato fuori di testa. Lo hanno rinchiuso in un ospedale psichiatrico giudiziale; lo hanno imbottito di barbiturico ed è meglio per lui, credimi. Non potrà mai spiegarsi quel che è accaduto. E noi non possiamo certo dirglielo. Non ha le carte in regola per essere uno dei nostri, non è all’altezza. Uno che spara in una rapina, ad un ragazzino più piccolo di lui per giunta… no, no, non se ne parla. Un rapinatore non uccide. Gli assassini uccidono, piccolo. Gli assassini solamente. E noi non vogliamo assassini tra noi. Ladri, puttane, truffatori, quelli sono brava gente. Purché siamo noi a sceglierli. Se sentiamo che la persona in pericolo è uno a posto (e non chiedermi come facciamo, abbiamo tutti un bell’intuito qui, e lo stesso vale per te, o non ci ritroveremmo a parlarne oggi) apriamo la finestra delle finestre e lo salviamo; lui non capisce un fico secco di quel che accade, e noi glielo spieghiamo poi; se quello non dà segno di impazzire all’istante, potrà essere dei nostri. Ma non divaghiamo troppo, torniamo ai tuoi primi quindici secondi.
Azouz cominciava ad essere impaziente; ormai voleva solo arrivare a quella specie di battesimo del tempo più in fretta che poteva.
-Matthew, qual è il modo Migliore? come diavolo si fa?
-Il modo Migliore è il più difficile, Azouz, come in tutte le cose della vita. Ma prima che io te lo spieghi, dimmi, sai cosa vuol dire viaggiare alla velocità della luce, piccolo?
Azouz piegò la bocca in una smorfia di disgusto. Era la prima volta che Matthew tentava di spiegargli in dettaglio quel che succedeva all’apertura di una finestra, e l’esordio non era dei migliori; il ragazzo non sperava di capirci nulla. Velocità della luce, figurarsi, a quel punto l’inglese gli avrebbe anche parlato di uomini verdi e dischi volanti.
-Quando apri una finestra ti sembra che il mondo si fermi. Ma è solo un’impressione. Sei tu che acceleri, figliolo. Tutto il tuo corpo, la tua mente, il tuo cuore, persino il tuo pensiero, si muovono alla velocità della luce.
Ancora una volta, Matthew si avvicinò al ragazzo e stavolta sussurrò, fissandolo con gli occhi spalancati, per trasmettergli la sensazione di potenza infinita che il piccolo avrebbe dovuto governare all’apertura della finestra: -Tu ti muovi a trecentomila chilometri al secondo, Azouz, e loro invece si muovono a cinque all’ora, come tu ed io in questo momento. Ti sembreranno fermi, Azouz.
Poi si allontanò, e tirò un profondo sospiro.
-Ma non sono fermi, vero, Matthew? - Ribatté il ragazzo.
-Esatto, piccolo! Non sono fermi, la loro vita continua. Ma tu, per te invece sarà come se avessi più tempo di loro. Non so dirti nemmeno io quanto, ma molto, molto di più. E’ in quel tempo che Maruska ti ha tolto la pallottola dalla pelle della fronte; era pur sempre una pallottola velocissima Azouz, lei mi ha detto che se avesse aspettato, forse sarebbe addirittura riuscita a vederla muoversi. E tu saresti morto, lentamente. In quindici secondi, o giù di lì.
Matthew gli sorrise e Azouz lo ricambiò.
-Chi decide quando aprire la finestra?
-Tu, piccolo. Quando sarà il momento, lo capirai da solo. Al battesimo del Tempo devi solo ricordare di intervenire su persone poco famose, personaggi poco importanti; capirai bene, Azouz, che se dovessi fallire, il danno sarà minore. Se andrai bene, ti passerano alla divisione Spettacolo, e poi se farai carriera, potrai arrivare fino ai Politici Internazionali, o magari, chissà, se hai talento, potresti persino essere assegnato alla divisione Genii dell’Umanità! Ma come tutti, comincerai dalla gavetta, figliolo, la Gente Comune. Ti confesso che per i Guardiani è una palestra e nulla di più; te l’ho detto, abbiamo cento, al massimo centodue finestre all’anno e non possiamo sprecarle. Non c’è posto per le romanticherie, come salvare una donna qualunque, o… la paghiamo cara.
Matthew arrossì, nel dire quelle ultime parole, e poi tacque, quasi pentendosi di averle profferite.
Ma il piccolo era ancora troppo piccolo, e lasciò correre. Del resto, stava ancora aspettando una risposta che non era arrivata.
-Diavolo, vuoi dirmi qual è il modo Migliore? - gridò verso l’uomo.
-Non c’è una regola precisa, piccolo; quel che posso dire è che tutto ciò che non rientra nel modo Peggiore rientra in quello Migliore. Avrai la tua moto, la città ne è piena, in tutti i posti che ti ho insegnato, e potrai decidere dove andare. Mi hai detto che sai guidarla, vero? Tranquillo, non ci saranno i gendarmi a chiederti quanti anni hai! Dovrai indagare la vita del soggetto su cui interverrai. Potrai andare a casa sua, potrai visitare i parenti, i figli, la moglie, potrai indurre dei cambiamenti improvvisi nella vita della persona, e così creare un flusso di tempo diverso da quello di partenza, cambiando l’evento su cui avrai aperto la finestra, addirittura, se sei bravo, impedendo che avvenga.
-Vuoi dire… che andrò nel passato?
-No! - gridò Matthew balzando in piedi infuriato.
-Ci sarei arrivato proprio ora! questa è l’unica cosa che non potrai fare!
Azouz non comprese il motivo della rabbia del suo mentore, ma divenne rosso in viso ancora una volta e tacque.
L’uomo impiegò qualche secondo a calmarsi e tornare a sedersi sulla sedia a tre gambe.
-Azouz, nel passato non possiamo andare, intervenire sul passato è impossibile, e comunque molto, credimi, molto meno efficace di quel che facciamo noi, capisci? qual che facciamo noi è… scomporre il tempo in una successione infinita di istanti brevissimi, come… come…- l’uomo agitava le mani nell’aria e cercava le parole giuste; sapeva che dall’efficacia della spiegazione dipendeva il successo del piccolo e mimava con gesti ampi e goffi ogni immagine che descriveva -come spezzare una linea in una serie infinita di punti; se prendi un punto e lo sposti da quella linea, il punto successivo non sarà più dove era, e il corso degli eventi cambia, in un intervallo di tempo infinitamente piccolo, ma sempre nel tempo presente. La finestra, piccolo, la finestra è una linea nel Tempo Standard, una linea brevissima di quindici secondi, poco più di un punto nel flusso eterno del Tempo; ma quando ti muovi alla velocità della luce diventa lunghissima, piena di punti su cui puoi agire; cambia un solo punto laggiù, e cambierai tutta la linea qui, figliolo! Capisci, piccolo? Capisci cosa dico? A volte non serve spostare un proiettile, cioè una montagna di quei punti, ne basta uno solo, un solo granello di polvere del tempo, e il bello è che nessuno se ne accorge poi, di qua. Questo, piccolo, è questo il modo Migliore.
Matthew sospirò. Era molto soddisfatto delle parole che aveva trovato. Ma aveva così poca fiducia in se stesso, che sospettò addirittura che qualche collega avesse aperto una finestra in quel momento per cambiare gli eventi e fargliele trovare.
Poi invece si rese conto che era stato il ricordo di quella donna a farlo impennare verso la spiegazione più azzeccata. La donna di quando lavorava nella divisione Gente Comune, l’unica divisione operativa in cui avesse prestato servizio, riportando una serie copiosa di successi, prima di diventare un trainer. Quella donna di cui si era innamorato all’istante, in quella maledetta banca, e che non era riuscito a salvare, illudendosi di aver indotto un mutamento sufficiente, addirittura nel passato. Era stato allora che Matthew aveva capito che i Guardiani non avevano alcun potere sul passato. Che aveva solo modificato il presente in modo insufficiente, lasciandola morire. Che a volte un solo punto poteva non bastare. Che il romanticismo è fuori luogo quando hai una missione da compiere.
E aveva giurato a se stesso che non avrebbe più aperto finestre, o spostato punti, né lasciato morire nessuno; perlomeno, nessuno a cui volesse bene.




2. Paradossi


L’indomani mattina, Andy e Matthew girovagavano per Parigi senza meta e senza scopi.
Erano alla ricerca casuale dell’evento scatenante, e al tempo stesso sapevano di non doversene preoccupare eccessivamente. L’evento scatenante avrebbe indotto il ragazzo ad aprire la sua prima finestra, la numero 49 dell’anno 1997. Quell’evento sarebbe potuto avvenire di lì a poco, oppure i due avrebbero potuto dover attendere settimane, o mesi.
Se poi tutto fosse andato bene, per il resto dell’anno il piccolo avrebbe potuto aprirne al massimo altre due.
Quarantacinque secondi di vita in tutto. Meno, molto meno, di un bacio appassionato. Una breve apnea nell’infinito respirare della vita.
Matthew credeva profondamente nel piccolo. Ormai era il suo piccolo. Sarebbe stato disposto a tutto perché lui avesse successo. Perfino a morire. Ma non sapeva come avrebbe potuto aiutarlo, se fosse stato necessario. Era conscio che non sarebbe stato nemmeno possibile sapere se e quando il ragazzo avrebbe avuto bisogno d’aiuto, a meno che non fosse stato lui a chiederglielo.
Una simile procedura era prevista solo per casi di assoluta emergenza. Casi in cui il rischio fosse tale da pregiudicare l’incolumità del Guardiano o peggiorare l’andamento degli eventi durante l’apertura della finestra.
Matthew si domandava se il ragazzo, cui quella procedura era stata illustrata a dovere, sarebbe stato abbastanza intelligente da metterla in pratica se davvero ne avesse avuto bisogno. Decise di smettere di pensarci, facendo di nuovo l’immagine del dito del babbo che si ritrae con dolcezza dalla manina del bimbo che sogna ad occhi aperti di camminare da solo, e poi, sorpresa delle sorprese, cammina, e più in fretta del previsto.
In quell’immagine quel bimbo non cadeva affatto, e Matthew tirò un sospiro, che significava sollievo, speranza, e tanta fiducia.
L’uomo guardava continuamente il ragazzo. Il ragazzo lo sentiva e guardava dritto davanti a sé.
Matthew era impaziente, e l’unico modo per capire se i quindici secondi fossero già trascorsi era controllare l’espressione sul volto del piccolo. Tutto poteva avvenire nell’intervallo di tempo necessario ad attendere il verde e girar l’angolo di una strada, o soffiarsi il naso e metter via il fazzoletto.
L’uomo attendeva un battito di ciglia in più e il ragazzo attendeva l’istante in cui, come per incanto, il mondo, e il suo stesso mentore, si sarebbero immobilizzati, solidificati, cristallizzati, per chissà quanto.
I due avevano speso la nottata nel dissertare di dettagli tecnici di importanza fondamentale.
C’erano soprattutto due particolari su cui Matthew si era soffermato a lungo, e che pure Azouz aveva compreso essere vitali per il successo: il fenomeno del Contatto e il meccanismo della Variazione.
Si trattava in effetti delle due leve fondamentali grazie alle quali la missione sembrava avere un barlume di speranza di successo.
Il Fenomeno del Contatto non era ancora stato spiegato in modo soddisfacente, anche se alcune ipotesi teoriche erano state avanzate dai Ricercatori della Guardia del Tempo. Esso consisteva nell’osservazione, puramente empirica, che durante l’apertura della finestra tutti gli oggetti del Tempo Standard che venissero a contatto prolungato con il Guardiano acceleravano anch’essi fino alla sua stessa velocità. Come se le particelle del Guardiano trasmettessero la propria vibrazione a quelle dell’oggetto. A tal fine il contatto doveva avere una durata minima sufficiente, almeno dieci secondi di tempo relativo.
-Era a questo che mi riferivo, quando parlavo delle motociclette sparse per la città- aveva detto Matthew -solo se le toccherai a lungo, potrai usarle.
Tutto, nella finestra, si sarebbe mosso con lentezza infinita, a meno che non venisse toccato dal Guardiano per più di dieci secondi apparenti (corrispondenti ad un tempo infinitamente piccolo nella dimensione Standard). Un telefono cellulare nelle sue mani avrebbe potuto funzionare alla sua stessa velocità, (anche grazie al fatto che le onde elettromagnetiche viaggiano naturalmente e comunque alla velocità della luce e… purché vi fosse qualcuno in grado di rispondere alla velocità della luce!), una motocicletta avrebbe viaggiato alla stessa velocità, e così via. Ma naturalmente, la percezione della velocità relativa della motocicletta rispetto all’asfalto sarebbe stata la medesima del tempo standard; ottanta chilometri orari, questo era il massimo consentito dagli scassati e vetusti modelli, rubati dagli zingari o riassemblati dagli algerini (dei veri esperti), a disposizione dei Guardiani.
E poi, c’era quella storia importante della “Variazione”.
Il ragazzo avrebbe avuto con sé un Cronometro.
-Un orologio? – gli aveva domandato Andy con sorpresa quando l’uomo aveva iniziato a spiegare questo argomento.
Niente di tutto questo.
Il Cronometro, con la C maiuscola, era uno degli strumenti professionali più importanti del Guardiano.
Nessuno sapeva chi lo avesse inventato, né quando; di certo nell’antichità esso non era stato disponibile, con la conseguenza di rendere a volte interminabili le missioni dei Guardiani. Il Cronometro consentiva infatti di variare la velocità del Guardiano rispetto al Tempo Standard. Una volta aperta la finestra, e raggiunta la velocità della luce, era possibile decelerare in modo graduale fino a velocità finite, multipli interi della velocità del tempo standard, o ri-accelerare verso il massimo, la velocità della luce.
Tra i Guardiani, era ormai celebre l’aneddoto del vecchio Servo Samer.
Samer aveva prestato il suo servizio di Guardiano nell’antico Egitto, sotto il regno di Tutankamon.
L’uomo aveva aperto una finestra nell’attimo esatto in cui aveva intuito che stava per iniziare l’esondazione del Nilo dell’anno 1.444 A.C., per tentare, folle speranza, di salvare più persone possibile.
In quel caso si sentì autorizzato a spostare fisicamente migliaia di persone dalle rive del fiume: soprattutto contadini e schiavi giudei del Faraone intenti al lavoro nei campi.
A quel tempo il modo Peggiore era molto più praticato che nell’era moderna.
Fu proprio questo fenomeno, a generare le leggende alla base della celebre apertura del Mar Rosso da parte del Profeta Mosé, appartenente alla credenza biblica di almeno tre religioni. Si era trattato in realtà del fiume Nilo, ed anche altri dettagli della vicenda erano stati progressivamente distorti in modo aberrante nelle narrazioni orali che erano state alla base della scrittura del sacro libro.
Per portare a termine la sua missione, Samer aveva bisogno di cavalli e mezzi di trasporto, e all’istante dell’apertura della finestra i più vicini si trovavano a circa sessanta chilometri di distanza verso il Nord.
Per salvare tutte quelle persone, il virtuoso Samer impiegò non più di quindici secondi di tempo standard, tutti vissuti alla velocità della luce; ma il tempo relativo che egli trascorse nella finestra furono più di tre anni di viaggi a cavallo.
Quando tornò a casa era invecchiato, e sua moglie sentì che l’uomo aveva fatto un lungo viaggio, ma volle rispettare il suo silenzio e non gli chiese nulla.
A quel tempo non esistevano Cronometri, con i quali egli avrebbe potuto modulare la sua velocità, rallentando a valori più prossimi al tempo standard, e quindi, paradossalmente, impiegare meno tempo relativo per spostarsi.
Il piccolo Azouz avrebbe potuto invece muoversi a piacimento, semplicemente regolando la velocità: a minor velocità, il tempo standard sarebbe trascorso più in fretta e non ci sarebbe stato quindi alcun rischio di percepire eterne attese di tempo relativo.
Quando fosse tornato, avrebbe potuto avere la barbetta più lunga di qualche giorno, nulla di più.
Non fu affatto facile per Matthew far sì che il ragazzo afferrasse appieno il concetto, ma alla fine il piccolo pareva essersi persuaso. Gli era infatti molto più facile convincersi degli aspetti positivi di quella storia assurda che di quelli più catastrofici, e di questi ultimi ve n’erano indubbiamente parecchi.
Verso il primo pomeriggio i due decisero di prendere l’automobile. Avrebbero usato la vecchia Mercedes 190 di Ivan, uno dei capi del campo nomadi di Orly. Matthew guidava, con le difficoltà che da buon inglese non aveva mai perduto, legate a quella strana tendenza degli europei a fabbricare automobili con il volante nella parte sinistra dell’abitacolo.
C’era un clima molto caldo a Parigi in quei giorni di agosto; l’aria era umida e il cielo plumbeo minacciava un temporale.
Matthew guidava, e pensava a Olga.
L’aveva incontrata nella filiale della Banque Nationale de Paris di Place de Roget. Lei lo aveva urtato inavvertitamente con il braccio nella lunga fila davanti all’unico sportello dedicato a disoccupati, pensionati e immigrati, mentre, respinta dal cassiere, risaliva rabbiosamente la fila per prender posto e attendere il suo turno.
La donna non aveva per nulla notato l’inglese in attesa del suo sussidio, mentre lui notò subito la bella bielorussa in cerca di fortuna.
Fu una dolcissima fitta al basso ventre a cambiargli la vita.
Dopo pochi secondi, un marsigliese fuori di testa aveva fatto irruzione nella banca, ucciso l’agente di custodia con un colpo di rivoltella silenziata e scelto lei come ostaggio per indurre i funzionari a fare come diceva lui e chiudere le porte.
Jean “grilletto facile” (era così, seppe poi, che la polizia lo chiamava) teneva la pistola premuta contro la guancia della giovane donna, il cui bel volto era sfigurato dal terrore indelebile della morte imminente.
Matthew non ci pensò due volte e aprì una finestra temporale non autorizzata. Sapeva che una violazione del genere gli sarebbe costata il posto di Guardiano. Come era successo al vecchio Billy, l’americano, che per una violazione simile era stato ipnotizzato da Berthold il tedesco e indotto a dimenticare tutto quello che riguardava la sua precedente vita.
Ma non gliene importava proprio nulla: quella era la donna della sua vita, lui lo aveva deciso subito; l’avrebbe salvata anche a costo di non rivederla più.
Solo un folle come un Guardiano poteva essere così irrazionale.
Pensò che l’unico modo per ridurre l’impatto di un’azione non autorizzata fosse cambiare il più possibile l’apparenza degli avvenimenti e rimase a tal fine nella finestra per quasi quattro mesi di tempo relativo.
Quattro mesi nei quali girò tutta Parigi, mosse motociclette, automobili e perfino autobus nel traffico; spostò persone, cambiò biglietti di appunti, creò appuntamenti prima inesistenti, allo scopo di creare una falsa apparenza di un passato inesistente, in modo che al “risveglio” il movimento di tutte le persone coinvolte in quella faccenda sarebbe stato tale per cui, secondo il calcolatore probabilistico, Olga sarebbe stata salvata da una squadra di agenti speciali che sarebbe intervenuta sul posto con netto anticipo, al 94% delle probabilità. Un valore più che accettabile.
Inoltre, il calcolatore aveva stabilito che questo intervento avrebbe anche salvato la vita del rapinatore stesso, un dettaglio trascurabile a questo punto.
Sarebbe stato più facile togliere la pistola di mano a Jean “grilletto facile”, ma un mutamento del genere avrebbe avuto un impatto pubblico devastante, con imperdonabili ripercussioni sul corso della storia della città, e del mondo intero.
Matthew si era convinto di aver cambiato il passato. Si era sentito onnipotente.
E’ superfluo specificare che le cose non andarono come aveva sperato. La squadra speciale era intervenuta come previsto, Olga tratta in salvo, il marsigliese arrestato e processato.
Ma dopo sei giorni la ragazza era stata investita dall’automobile su cui viaggiava la moglie del delinquente, mentre questa si recava a far visita al marito nel carcere di massima sicurezza di Roissy. Non si riuscì a dimostrare che non si fosse trattato di una casualità.
-Matthew, Matthew!- gridò il piccolo mentre l’inglese non rispettava un passaggio pedonale, segno evidente per lui di distrazione profonda.
Azouz lo risvegliò così dalla ennesima visione di quel giorno lontano nel passato che Matthew stava rivivendo (come spesso gli accadeva), isolandosi completamente dalla realtà, per rimanere imprigionato nei mille lacci del ragionamento sugli eventi fra loro concatenati: la velocità dell’arrivo della squadra speciale, il tempo di estrazione dell’arma di Jean, l’investimento di Olga, e decine di altri dettagli ormai insignificanti, sui quali sempre prevaleva l’azzurro degli occhi della sua amata, tremanti di fiera rabbia slava mentre risaliva quella fila di derelitti autorizzati a percepire la carità ufficiale della Terza Repubblica.
Come lui stesso aveva detto al piccolo, e con severa aria di rimbrotto, il passato non poteva essere modificato, nemmeno dai Guardiani del Tempo.
-Matthew! - gridò il piccolo all’improvviso, a squarciagola, accalorato, sudatissimo e con un tono di voce completamente diverso, come se tornasse da chissaddove, ce l’ho fatta…!


3. Come fu che cambiai quella storia

A Matthew non lo dissi mai, ma io sapevo benissimo perché mi ero ritrovato addosso quei meravigliosi pantaloni di seta, il giorno in cui Maruska mi salvò.
Lei era una donna schietta, e me lo aveva detto subito, ma io avevo capito che Matthew si vergognava per me, e quindi non voleva essere lui a raccontarmelo. Mi proteggeva sempre, il mio vecchio inglese.
Ma io sapevo come stavano le cose.
Quando la finestra si era aperta, Maruska l’aveva vista subito.
Una grande macchia scura di bagnato all’altezza della mia verginità; il frutto del terrore di una morte imminente. Per evitare il mio imbarazzo, mi aveva messo addosso i calzoni del figlio, che la polizia le aveva ammazzato solo due mesi prima, durante la retata al bar dei polacchi di Rue de Bercy.
E’ uno dei due ricordi più vivi che ho di quel tempo lontano, quando eravamo noi a fare questo lavoro, gli anni meravigliosi in cui esisteva ancora la Guardia del Tempo, fatta di persone di carne e ossa, prima che arrivassero i Computer e il resto, che ora provvedono a tutto in modo automatizzato.
Il secondo ricordo che rispolvero gelosamente quasi ogni giorno di questa vecchiaia è proprio quella mia prima volta, quella sera d’agosto del 1997, laggiù, lungo la Senna.
Il vecchio Matthew adorava sentirmi raccontare com’erano andate le cose quel giorno.
Ci è morto, con quel racconto. Steso sul letto d’ospedale, alla veneranda età di centodue anni, si era addormentato alle mie parole, e il giorno dopo… puff.
Andato.
Partivo sempre nello stesso modo: “giravamo per Parigi, senza meta e senza scopi…”, e lui si metteva lì, in silenzio, ad ascoltare, come se fosse la prima volta che sentiva quella storia, della quale, manco a dirlo, lui era stato il regista.
Giravamo per Parigi, senza meta e senza scopi, e Matthew continuava a far finta di non guardarmi, ma io sapevo che non faceva altro che tenermi d’occhio.
Non vedeva l’ora di poter constatare il mio ritorno, perché questo sarebbe significato in un colpo solo che ero partito, che i miei primi quindici secondi erano stati consumati, che quel battesimo era avvenuto.
Così, la sua paura per me si sarebbe placata, almeno fino alla finestra successiva.
Sapevo cosa dovevo fare per aprire la finestra, come usare il vecchio Cronometro, come balzare in quella dimensione che al giorno d’oggi è considerata così normale, così facile. Sapevo come avrei potuto regolare la mia velocità.
Quello che non avevo affatto compreso era come capire quando dovessi usare il Cronometro, e aprire quella maledetta finestra. Matthew me lo aveva ripetuto tante volte, ma a me pareva una cosa troppo improbabile, tanto era irrazionale.
E sì, che era l’epoca della razionalità, quella, e non era facile, per un ragazzino poi, capire certi discorsi.
Me lo aveva spiegato in tutte le salse: “a livello inconscio, sentirai quando è il momento prima che accada qualcosa di irreparabile, e avrai i tuoi quindici secondi di eternità per evitare in ogni modo che accada”.
A livello inconscio! Figurarsi se avrei potuto capire. Avevo già troppi problemi con il concetto di velocità della luce e tutto il resto.
Ma era così.
La scintilla della saggezza si accende spontaneamente, e perfino oggi che il meccanismo d’apertura è automatizzato, è sempre l’essere umano che deve vedere e decidere il quando.
L’esatto momento di apertura della finestra precede l’evento che si vuole evitare, questa è la chiave di tutto. E’ come se l’essere umano percepisse qualcosa che sta per succedere, da piccoli segnali, dettagli insignificanti, come un’intuizione, priva della lungaggine del ragionamento logico, una pulsione immediata, irresistibile, diretta.
La mano si porta automaticamente sulla levetta rossa del Cronometro e tutto ha inizio. E dopo quindici secondi, tutto ha fine.
Fu in quel tunnel.
Vidi quella grossa auto scura superarci a gran velocità, e gli occhi della principessa sfiorarmi per un istante, mentre il suo autista si accingeva a spostarsi verso il basso per rispondere al telefono cellulare.
Aprii la finestra senza neppure accorgermi che lo stavo facendo.
Fu un cortocircuito, una specie di movimento istintivo. Avevo visto qualcosa e mi ero mosso. E’ così che vive l’essere umano.
La sensazione fisica fu orrenda.
Fu come l’improvviso frenare di un immenso ascensore contenente l’universo, dopo una salita di diecimila piani, una corsa di miliardi di miliardi di miliardi di anni.
Sentii il peso del mondo scaricarsi sulle mie spalle, durante quell’assurda frenata. Sentii il respiro sospendersi per alcuni istanti, come mi era stato spiegato; poi le particelle d’aria che rimanevano a contatto con la mia bocca, con la mia trachea, accelerarono anch’esse e mi raggiunsero in quel mondo lontano, e potei respirare ancora.
Guardai tutt’intorno e vidi l’usuale filmato dell’esistenza rallentare, per bloccarsi in un singolo fotogramma, trasformarsi in una immagine fissa e sovraesposta.
Oltre a me, in quel mondo privo di suoni si muovevano solo i raggi di luce, che vedevo come linee, talora continue, talora interrotte o tratteggiate, di colori variabili.
Guardai Matthew e vidi che il suo volto scolpito nella carne fredda aveva appena iniziato ad assumere un’espressione preoccupata, quasi avesse intuito quel che stava per accadere. Pensai a quanto mi mancava quel maledetto inglese che aveva sempre la risposta giusta. Gli posi una miriade di domande, rifiutandomi all’inizio di ammettere che tutto stesse succedendo davvero, e sperando in una risposta, una sola, che non arrivò.
Poi scesi dalla vecchia auto e iniziai a lavorare.
Stavo cominciando la mia prima indagine alla velocità della luce.
Avevo intuito il motivo di quella finestra, era chiaro che dovevo salvare quella donna, ed era altrettanto chiaro che avevo commesso la mia prima violazione; quella non era una persona comune, e quindi io, Azuz Khamir, di tredici anni, novellino in prova alla Guardia del Tempo, stavo già togliendo lavoro a qualche anziano delle divisioni superiori.
Ma ormai ero lì, e, come Matthew amava ripetere sempre, non potevo sprecare una finestra che era stata aperta.
Mi concentrai sulla scena che avevo davanti.
Nel gruppo scultoreo che stavo ammirando, la mia Venere era una principessa del Regno di Gran Bretagna, come suggerito dal sigillo sull’anello che portava, ed era avvolta dal caldo abbraccio di un giovane dignitario africano, forse del mio stesso paese, di corporatura robusta e di bell’aspetto. Sul sedile anteriore, oltre all’autista c’era un altro uomo, probabilmente una guardia del corpo.
Era chiaro che se l’autista avesse raggiunto il telefono per rispondere, l’auto sarebbe rimasta coinvolta in un mortale incidente. Almeno, questo era quello che la mia sensibilità inconscia mi suggeriva, ed oggi so quel che allora ignoravo: la mia sensibilità non ha mai fallito un colpo.
Dovevo rintracciare l’origine di quella telefonata, e interromperla. Il mio calcolatore di probabilità confermava che all’89% avrei potuto evitare un tremendo schianto dell’auto con questo semplice intervento.
Vidi che la Principessa stava tendendo la mano verso l’uomo, come fosse interessata a rispondere, e intuii quindi che la telefonata potesse provenire da molto lontano. Sul quadrante del telefono vidi un numero; mi sembrò strano, ma a quel tempo avevo sentito dire che i potenti del mondo potevano sapere chi ti chiamava.
Riconobbi il prefisso di Londra, quello che mia zia Amina componeva sempre per mettersi in contatto con l’altro ramo della famiglia.
Siamo sparsi in tutta l’Europa, noi altri.
Rintracciai la vecchia Husqvarna 80 nascosta lungo l’argine del fiume poche centinaia di metri più a Ovest, tenni le mie mani sul gelido serbatoio della benzina finché, dopo quelli che mi parvero dieci secondi, sentii l’arnese diventare caldo come me, ci montai sopra e tentai di mettere in moto.
Ci vollero vari tentativi; anche la benzina, l’ossigeno, tutto ciò che smobilitava dal Tempo Standard e raggiungeva me e la mia cavallina di metallo nella dimensione in cui eravamo, aveva bisogno di dieci secondi di contatto.
Guidato dalla mappa stradale, iniziai un avventuroso viaggio verso la Gran Bretagna. Attraversai le campagne a Nord di Parigi, e non mi sembrarono molto diverse da come le ricordavo. Fu curioso imbattersi per la prima volta in statue di mucche e contadini alla mungitura, trebbiatrici bloccate in mezzo ai campi, o in fumate immobilizzate nell’aria dai comignoli delle fattorie.
Alla fine raggiunsi Calais, e passai agevolmente fra le auto in fila per l’imbarco, una marea di lamiere mescolate a figure umane immobili nella loro concitazione.
Gente che partiva e gente che arrivava.
Vidi intere famiglie intente alla lite negli abitacoli delle auto, bigliettai che cercavano il resto in moneta, marinai con la bocca spalancata nell’atto di impartire ordini di imbarco, e dovetti perfino passare, a piedi, fra le braccia avviluppate di un inglese e un francese che se la davano di santa ragione per decidere a chi spettasse la precedenza. Dovevo stare molto attento, e non toccare nessuno per più di pochi secondi.
Il problema principale che incontrai fu il superamento del mare.
Non potevo certo muovere una nave. Tecnicamente sarebbe stato possibile, ma le conseguenze potevano essere irreparabili.
Perciò, su di un’imbarcazione di fortuna, una vecchia pilotina di porto, muovendomi su di un mare che pareva immobile e denso come una lastra di ghiaccio, e che si scioglieva al mio passaggio, formando un’unica linea di liquido in quella distesa di legno grigio, arrivai dall’altra parte in quel che mi parve poco più di un’ora del mio tempo.
Raggiunsi Londra ed entrai senza difficoltà nella possente Reggia di Buckingham, sotto il saluto militare delle Guardie di Palazzo che stavano effettuando la Cerimonia del Cambio.
Girai per molte stanze dai soffitti altissimi e finalmente lo vidi. Quell’uomo così buffo ed elegante, che era il marito della mia Principessa, e che teneva stretta la cornetta di un telefono portatile mentre ergeva il suo poco prestante fisico da mille bolle di sapone, che a me parevano delle grandi biglie di vetro colorato.
Era proprio lui che l’aveva chiamata.
Gli presi il telefono dalla mano ed estrassi la batteria dalla cornetta, interrompendo la telefonata.
Consultai il mio calcolatore di probabilità, che segnava un livello di correzione degli eventi del 99%.
Tornai di volata a Parigi.
Montai in auto, poggiai la testa sulle gambe di Matthew, e lo accarezzai, per meno di dieci secondi; non glielo dissi mai.
Poi presi il Cronometro, decelerai alla velocità del Tempo standard e così chiusi la mia prima finestra.
Guardai il mio vecchio, ora piangeva. Piansi anch’io.
Da allora, non ho mai smesso di amare questo lavoro.
Ancora oggi, dopo tutti questi anni, mi mancano tanto le mie parentesi di eternità.

martedì 9 dicembre 2008

"Science fiction can do anything literature can do, and then some."


After her worldwide success novel "The time traveler's wife", and waiting for the movie based on it, Audrey Niffenegger reveals inedited aspects of the story. Eclectic personality, writer, artist, illustrator, creative writing teacher, Audrey released this interview on Dec 6th 2008.



2008, Francesco Troccoli, all rights reserved.





Hello, Audrey and first of all thank you for your time. Let me express all my admiration both from a reader’s and writer’s perception. The TTW is really a great work, not only within a “genre” view. I know several people, including myself, who really enjoyed reading it and I am buying more copies as Christmas gifts.

Thank you.

In an interview you said that “you were worried it would never get published as the title makes it seem traditional SF while it isn’t SF enough for genre-fans”. In Italian libraries you cannot find this book on SF shelves. It’s in mainstream. But I think it actually is SF, and I can say that SF fans are in love with the story. I know you do not consider important this kind of distinction, but can you tell us your perspective?

I do think it is SF (after all, it is a time travel story) but the center of gravity is the relationship between the main characters, and the book is fundamentally an examination of a marriage. I think that the best science fiction has all the qualities of “literature” plus that extra, speculative thought-experiment aspect. SF can do anything “literature” can do, and then some.

Are you a SF reader? (If yes, can you mention your favorite authors?)

I am, but I never seem to be up on all the SF news; I’m just now getting around to watching the new Doctor Who series, for example. My current favorites are Kelly Link and Geoff Ryman. And H. G. Wells has been a major influence. Black Water, a collection of fantastic stories edited by Alberto Manguel, would be one of my desert island books.

SF has often been a typical male territory, even if we know there are phenomenal female writers. And female SF writers are very different from male ones. Rhythm is calmer, even in dramas, and narration is smoother and sometimes more intense. And genre rules almost become an “excuse” for a psychological exploitation of characters and plot. I think it is also your case. Anyway, have you read any of them, like Lois McMaster Bujold or Ursula K. Le Guin?

I read Ursula K. Le Guin many years ago, for a class in high school, actually. But I never got very into her work. I am an ardent fan of Susanna Clarke and also of Margaret Atwood.

And what are your favorite mainstream authors?

Of course, everyone I named above has been claimed by the mainstream. I would add Richard Powers, Wesley Stace, Henry James (who wrote ghost stories and time travel stories), Dorothy Sayers, Rainer Maria Rilke, Emily Dickenson, G.W. Dahlquist, Martin Amis, Edith Wharton, Virginia Woolf, Donna Tartt, and Chris Adrian.

Let’s go to the story. I think the “paradox” of Henry meeting so many times a younger/older his self is a key factor in the plot. But on the other hand, this is completely different from the majority of time travel stories, where meeting yourself in the past or the future is a sort of “taboo”, which might cause alterations in the flow of time. What is your perspective?

I tried to eliminate paradox from the story because it would have been a distraction. So the rules are:
-everything happens only once. Nothing can be changed;
-therefore there is no reason Henry can’t meet himself, as long as nothing changes; he experiences the event as many times as there are Henrys at the event;
-because nothing can be changed, this story is a tragedy, and is true to life.

Actually the book is dark and that it was even darker originally. Reading the story it seems there is a specific plot point where things start to collapse. Until then, anything was possible. Even a happy ending (which I know you consider artificial almost always). Henry loses his feet, he is trapped in the closet in the library (which he had always feared), and so on. That is the point where the reader starts feeling sorry because it is clear that he will die after being wounded in the hunting place. Did you explore any possible different end or was this given from the very first moment you started writing?
I wrote the last two scenes of the book first. Henry’s death was always there, and in the process of writing I eventually figured out how it happened.

You said a story rule (very contradictory to traditional time travel stories) is nothing can be changed. It sounds like “pre-destination”. I mean, there is a sense of “unchangeability” of the flow of the events, and you really feel Clare and Henry are thrown down to their destiny with no alternative…

Yep. That is what happens when you eliminate paradox (see above) and when religion does not figure into the equation.

Well, in your website’s FAQ, You said you were raised catholic (like Clare in the book). Could this be connected with this sense of predetermination in some way?

Catholics believe that God gives humans free will. Hence, the woman in the garden with the snake and the apple. Certain Protestant sects believe in predestination. Clare has a hard time accepting a universe in which everything has already happened, precisely because she believes in free will. Henry struggles to cultivate a sense of free will; he tried not to know what the future will bring so he can make choices freely.

On the other hand, I think that the “real” end is happy. It is when the old Clare meets Henry for the last time. Love wins over death and bad destiny…

Yes, although she waited quite a long time for her happy ending.

Is the disease Henry has something which might represent his sub-conscious? I mean, he always leave in emotional moments (his marriage, the birth of Alba), like he cannot sustain them.

The time travel is meant to be a metaphor for memory, always glancing away from the present into the past.

Can you comment on the importance of subconscious in human beings?

It seems to me that subconscious is just another name for our real selves. We are like ice bergs; only the most superficial parts of ourselves can be seen by others. This is why fiction is so marvelous, it’s a way to get inside other people’s heads, to alleviate loneliness and to have impossible experiences. So much of what I write doesn’t make much sense to me as I write it; my subconscious is putting things together and I consciously understand later, when I edit.

Can you share with us your personal definition of “fantasy”?

To me Fantasy (in the literary sense) evokes elves and unicorns and such; Tolkien is my favorite in that realm, but I have not read very much and I know there’s lots of harder-edged Fantasy that I might like if I knew anything about it.

And more in general, a definition of "fantasy" as a human attribute?

Fantasy is all the purposeless, baroque, inchoate, pleasurable, and quite necessary thought we humans allow ourselves in the midst of our more sensible pursuits.

Is writing the art you love more, among the ones you do? Can you also comment on you as an illustrator?

Lately I’ve been working in the medium of comics, which has been perfect since it marries words and images. I would love to do more of that. My comic, The Night Bookmobile, has been running in the London Guardian:


The thing I love best is whatever I am working on at the moment. I am trained as an artist; I learned to write in school but mostly from reading other writers’ novels. So I am probably more versatile in visual arts, but I find writing more direct and easier.

You said in an interview that you will probably be disappointed by the results of the movie (director: Gus Van Sant, featuring Eric Bana and Rachel Mc Adams, produced by Brad Pitt). Has something happened in the meantime to make you change your mind? (by the way do you have news about the timing of the release?)

The director is Robert Schwentke. The movie is finished, as far as I know, and will be released some time in 2009. I am not involved with it, so I don’t really have any inside information. I hate people who comment on movies they haven’t seen (don’t you?) and since I have not seen it, I’m going to wait till it’s out before I say anything about it.

I read your current job is teaching students how to write. This is gorgeous. Do you think (good) writing is more a talent or something everyone can learn?


I do have a gorgeous job; I teach artists to write so they can put their art and writing together. My class is part of the Book and Paper Arts MFA program at Columbia College in Chicago, so the students are book artists.
I think that most people can tell a compelling story, and most people can learn to be competent writers. Good writing requires sensitivity to the reader and that is one of the things a student can get from a writing class: a sense of whether they are having the effect they think they are having.

Lastly, what is the status of you 2nd book, Her Fearful Symmetry, and the novella, The Chincilla girl in exile ?

Her Fearful Symmetry is almost finished; it will most probably be published next fall. The Chinchilla Girl in Exile will become part of a short story collection, I don’t know when that will be done, but thank you for asking. Sometimes I think I am the slowest writer in the world.

As far as I could understand Her Fearful Symmetry will be a sort of gothic novel, correct? Do you think SF readers will enjoy it?

It is another genre-crossing thing: it’s a ghost story, and certainly partakes of the gothic in certain ways, but it is not particularly scary. It’s mainly about relationships forming and coming undone, about the difficulties of communicating even with people you know intimately, and about the dangers of getting what you want.

Many thanks for your time, and Happy New Year.

Pics from forthcoming movie: here

Sources:





"La fantascienza? Può fare tutto quello che può fare la letteratura, e poi anche qualcosa di più."

Dopo il successo mondiale de “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” e in attesa del lancio del film che ne è tratto, Audrey Niffenegger ci svela alcuni inediti retroscena del romanzo. Personalità eclettica, scrittrice, artista, illustratrice, docente di scrittura creativa, Audrey ha rilasciato questa intervista il 6 dicembre 2008.
2008, Francesco Troccoli, diritti riservati.


Salve Audrey, e prima di tutto grazie per questa opportunità. Vorrei esprimerti la mia ammirazione sia dal punto di vista del lettore che dello scrittore. “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” è davvero un gran bel libro, e non solo dal punto di vista della scrittura di genere. Oltre a me, so di altri che lo hanno amato, e pensò che sarà un ottimo regalo natalizio per alcuni amici.

Grazie.

In un’intervista, hai dichiarato di essere stata "preoccupata che il romanzo non sarebbe stato mai pubblicato, in quanto il titolo lo fa sembrare FS tradizionale, mentre la storia non lo è a sufficienza per i fan del genere”. Nelle librerie italiane il romanzo non si trova nella sezione fantascienza, ma nel mainstream. In effetti però io ritengo si tratti di un romanzo di genere, e i lettori di FS lo apprezzano come tale. So che non ami queste classificazioni, ma puoi dirci il tuo pensiero in merito?

Penso che “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” sia a tutti gli effetti un vero romanzo di fantascienza (dopo tutto, è una storia di viaggi nel tempo), che però ruota intorno ad un centro di gravità rappresentato dalla relazione fra i due protagonisti, per cui quel che emerge nel libro è essenzialmente l'analisi di una relazione matrimoniale. E’ mia opinione che la migliore fantascienza possieda tutte le qualità della “letteratura” arricchita da quell’aspetto extra che è in qualche modo speculativo e con fini sperimentali. La fantascienza può fare tutto quello che può fare la letteratura, e poi anche qualcosa di più.
Sei una lettrice di fantascienza?

Lo sono, ma non sono mai aggiornata su tutte le novità; giusto adesso sto per cimentarmi con la visione della nuova serie di Doctor Who, ad esempio. I miei attuali autori preferiti sono Kelly Link e Geoff Ryman. E poi c'è H. G. Wells, che è stato uno di quelli che mi hanno influenzato in misura maggiore. Black Water, una raccolta di storie fantastiche edite da Alberto Manguel, è uno dei libri che mi porterei su un’isola deserta.

La FS è stata sempre un territorio a predominio tradizionalmente maschile, anche se conosciamo eccellenti autrici, che sono del tutto diverse dagli uomini. La loro narrazione ha un ritmo più tranquillo, persino nelle atmosfere più drammatiche, e spesso è più intensa, e le regole del genere si riducono spesso ad un espediente per svolgere un’analisi introspettiva della psicologia dei personaggi. Mi pare che sia anche il tuo caso. Ad ogni modo, quali sono le tue letture in tal senso? Penso a U. K. Le Guin, L. M. Bujold.

Ho in effetti letto U. K. Le Guin molti anni or sono, nel corso di lezioni a scuola, ma non ho mai approfondito il suo lavoro. Sono una fan appassionata di Susanna Clarke ed anche di Margaret Atwood.

E quali sono i tuoi autori di riferimento mainstream?
Ovviamente, tutti quelli che ho citato in precedenza possono essere considerati tali. Aggiungerei Richard Powers, Wesley Stace, Henry James (che ha scritto storie di fantasmi e di viaggi nel tempo), Dorothy Sayers, Rainer Maria Rilke, Emily Dickenson, G.W. Dahlquist, Martin Amis, Edith Wharton, Virginia Woolf, Donna Tartt, e Chris Adrian.

Parliamo ora della storia. Il paradosso di Henry che incontra così spesso il se stesso più giovane o più vecchio è un fattore chiave della trama. D’altra parte, questa è una differenza forte rispetto alle storie tradizionali di viaggi nel tempo, nelle quali incontrare se stessi nel passato o nel futuro è una specie di tabù che può causare alterazioni nel flusso del tempo. Che ne pensi?

Ho cercato di eliminare i paradossi dalla storia perché avrebbero avuto un effetto di distrazione dalla narrazione principale. Perciò le regole sono:
-tutto accade una sola volta. Nulla si può cambiare;
-di conseguenza non c’è ragione per cui Henry non possa incontrare se stesso, in quanto nulla cambia; lui vive ogni evento un numero di volte pari al numero di Henry presenti all’evento;
-poiché nulla può cambiare, la storia è una tragedia, e come tale è molto realistica.

In effetti la storia è molto cupa, e so che in origine doveva esserlo anche di più. C’è uno specifico punto della trama in cui la situazione precipita. Fino a quel momento, tutto sembra possibile (anche un lieto fine). Poi Henry subisce l’amputazione dei piedi, finisce nel reticolo senza porte della libreria, e insomma il lettore intuisce che morrà presto nella battuta di caccia. Avevi esplorato finali alternativi o questo era stato deciso sin dall’inizio?

Ho iniziato la scrittura di questo romanzo partendo dalle ultime due scene. La morte di Henry è un’idea che non è mai stata messa in discussione e, attraverso il processo di scrittura, alla fine ho immaginato come dovesse accadere.

Hai detto che c’è una regola per cui nulla può cambiare (diversamente dalla FS tradizionale). Sembra quasi una “predestinazione”. C’è un senso di impossibilità del cambiamento che fa sì Clare ed Henry siano “gettati” verso il loro destino, senza alternative.

Esattamente. Ma questo, come ho spiegato prima, è semplicemente quel che capita una volta che hai deciso di eliminare dalla storia il paradosso temporale, e quando la religione non entra a far parte dell’equazione.

In effetti nella sezione “Domande e risposte” del tuo sito dici che sei stata educata secondo religione cattolica (come la protagonista). Potrebbe esserci un collegamento con questo senso di predestinazione?
I cattolici credono che Dio abbia concesso all’uomo il libero arbitrio. Quindi, la donna nel giardino dell’eden, con il serpente e la mela. Alcune confessioni protestanti credono invece nella predestinazione. Clare fa fatica ad accettare un universo in cui tutto è già accaduto, proprio perché crede nel libero arbitrio. Henry non riesce invece a coltivare un senso di libero arbitrio, e cerca sempre di non sapere cosa il futuro gli porti così da fare le sue scelte liberamente. Il modello di universo utilizzato nel libro è un universo in cui tutto, passato, presente, futuro, esistono simultaneamente, come in un blocco unico. Lo si potrebbe immaginare come una casa nella quale la maggioranza di noi si muove di stanza in stanza, ma sempre in una sola direzione, ossia in avanti. Henry invece gira a caso per tutta la casa, senza alcuna direzione precisa.

D’altra parte, vi è anche un lieto fine in cui Clare, ormai anziana, incontra Henry per l’ultima volta. L’amore alla fine trionfa.

Sì, anche se Clare ha dovuto aspettare un po’ troppo per questo lieto fine…

Possiamo pensare che la malattia di Henry sia una rappresentazione del suo inconscio? Sparisce sempre nei momenti di maggior intensità emotiva (il matrimonio, la nascita di Alba) come se non fosse in grado di affrontarli.

Il viaggio nel tempo è una rappresentazione metaforica della memoria, che deflette continuamente dal presente al passato.

Puoi esprimerti sull’importanza dell’inconscio nell’essere umano?

A me pare che l’inconscio sia solo un nome alternativo per il vero essere se stessi. Siamo come degli iceberg, nel senso che solo la parte più superficiale di noi è visibile agli altri. Questo è il motivo per cui la fantascienza è così meravigliosa, perché è un modo per penetrare nella psicologia delle altre persone, alleviare la solitudine, e avere esperienze altrimenti impossibili. Quindi la maggior parte di quel che scrivo non ha molto senso per me nel momento in cui lo sto scrivendo; in quel momento il mio inconscio sta assemblando gli elementi, ma io lo capisco ad un livello cosciente solo in una seconda fase, quando rivedo e correggo il testo.

Puoi darci la tua definizione di “Fantasia”?

In me questa parola (“Fantasy", ndt), in senso letterario, evoca elfi e unicorni; Tolkien è il mio preferito in quel regno; non ne ho letto molto, ma so che esiste una seria letteratura di quel genere che potrebbe piacermi se la conoscessi di più. Fantascienza e Fantasy sono entrambi termini che mi pare debbano essere aggiornati. Mi interesserebbe di più parlare di narrativa “speculativa” e “fantastica”; in particolare l’ambientazione di quella fantastica secondo Alberto Manguel potrebbe essere definita come il mondo reale, ma con una sola regola in più; in tal caso il termine non potrebbe rimpiazzare la parola “Fantasy”.

E più in generale, una definizione della fantasia come attributo umano?

La fantasia è ogni pensiero senza finalità, barocco, informe, piacevole, e piuttosto indispensabile che noi esseri umani ci permettiamo nel mezzo delle nostre più sensibili attività.

La scrittura è l’arte che ami di più? Puoi anche parlarci del tuo lavoro come illustratrice?

Ultimamente ho lavorato nel campo dei fumetti, che rappresenta la perfezione dell’unione fra parole e immagini. Mi piacerebbe poter continuare. Il mio fumetto, The Night Bookmobile, è stato pubblicato sul quotidiano London Guardian:
http://www.guardian.co.uk/books/series/nightbookmobile.
Quella che amo di più è sempre la cosa a cui lavoro in un dato momento. La mia formazione è artistica; ho imparato a scrivere a scuola, ma soprattutto ho imparato leggendo romanzi scritti da altri autori. Perciò sono probabilmente più esperta nel campo delle arti visive, ma trovo che scrivere sia più diretto e semplice.

In un’intervista hai affermato che probabilmente non amerai il film che è basato sul tuo romanzo (che ha per regista Gus Van Sant, e protagonisti Eric Bana [Black Hawk Down, Hulk, ndt] e Rachel Mc Adams [Red Eye, La neve nel cuore, Casino Royale, Il cavaliere oscuro, ndt], prodotto da Brad Pitt). E’ successo qualcosa nel frattempo che possa aver modificato quest’idea? A proposito, quando uscirà?

Il regista è in realtà Robert Schwentke (regista di Flightplan, ndt). Per quanto ne so, il film è stato girato completamente, e verrà distribuito nel 2009. Non sono coinvolta direttamente, quindi non ho informazioni particolari. Detesto le persone che danno giudizi su film che non hanno visto (e tu?), per cui poiché non l’ho ancora visto, attenderò di vederlo prima di pronunciarmi.

La tua attuale professione è insegnare scrittura ai tuoi studenti. Questo è splendido. Ritieni che la (buona) scrittura sia frutto di talento o che si tratti di qualcosa che chiunque può imparare?
È vero, il mio è un lavoro splendido; insegno agli artisti a scrivere così loro sono in grado di coniugare arte e scrittura. Il mio corso rientra nel Book and Paper Arts MFA program del Columbia College di Chicago, per cui gli studenti sono artisti illustratori. Penso che moltissime persone possano raccontare una storia interessante, e che moltissime persone possano imparare ad essere scrittori competenti. La buona scrittura richiede sensibilità verso i lettori e questa è una di quelle qualità che uno studente può trovare all’interno di una classe in un corso di scrittura: la possibilità di sentire se si raggiunge l’effetto che si pensa di avere.

Infine, quale lo stato dell’arte del tuo secondo romanzo, “Her Fearful Symmetry”, e del racconto, “The Chincilla girl in exile”?

Her Fearful Symmetry è quasi finito; verrà probabilmente pubblicato nel prossimo autunno. Il racconto, Chinchilla Girl in Exile diverrà parte di una raccolta, che non so quando verrà pubblicata, ma grazie per la domanda. Alle volte penso di essere la scrittrice più lenta del mondo.

Per quanto ho potuto intendere, Her Fearful Symmetry è una specie di romanzo gotico, esatto? Pensi che gli appassionati di FS lo apprezzeranno?

Si tratta di un altro caso di lavoro che attraversa più generi: è una ghost-story, e certamente prende a prestito dal gotico per alcuni aspetti, ma non è particolarmente spaventosa. Riguarda il crescere, il lasciarsi andare, la difficoltà di comunicare persino con persone che si conoscono intimamente, e i pericoli nel raggiungimento di ciò che si vuole.
Spero che i lettori di fantascienza proveranno a leggerlo. È ambientato nella Londra attuale e nel cimitero di Highgate, perciò gli amanti del genere gotico vittoriano moderno vi troveranno cose di loro gradimento.

Grazie infinite, Audrey, e auguri di buon anno!

For English version please click here

mercoledì 3 dicembre 2008

Un vecchio libro

Questo racconto è giunto settimo al concorso "Ferrara&Ghost" 2008. (qui: Comunicato casa editrice)


-E’ solo un libro. Un maledetto libro. Un normalissimo, vecchio libro. Pieno di polvere, per giunta!
Sollevò la pesante e ampia copertina e la lasciò ricadere sul tavolo con un tonfo sordo; la vista della nube di pulviscolo lo fece tossire.
Continuava a ripeterlo, era solo un vecchio libro, un mucchio di pagine ingiallite dagli anni e tenute insieme dal caso più che dalla colla secca, una diavoleria prodotta da qualche santone incallito, o da un sedicente cartomante cacciato da un circo.
Tanto scompiglio per nulla, pensò.
Eppure qualcosa lo turbava profondamente, e che davvero non stesse accadendo niente non lo pensava affatto.
Aveva trovato il volume solo un paio di settimane prima, sepolto sotto quintali di avanzi, scartoffie e vecchiume di cui aveva deciso di sbarazzarsi, pur di ripulire una volta per tutte la piccola cantina.
Il titolo, scritto in caratteri oro sbiaditi, immersi nel legno ruvido e scolorito, aveva attratto la sua attenzione.

The Book of Thy Life


Quelle poche parole si perdevano fra segni e simboli magici che non conosceva, e che rimandavano a un mondo, quello dell’esoterismo, che aveva sempre disprezzato e ignorato.
Non aveva mai notato il volume in precedenza, ed immaginò che fosse uno fra le dozzine di vecchi e noiosi libri che sua madre gli aveva infilato in casa, insieme alle altre anticaglie e i cimeli che si era trascinata dietro al rientro dall’India, dove aveva trascorso gran parte della propria vita come leale suddito dell’Impero Britannico.
Sulle prime, Johnny aveva pensato di venderlo, ma sapeva bene quanto i vecchi libri, scritti in inglese per giunta, fossero difficili da piazzare a Roma. Aveva già tentato invano di disfarsi di una vecchia bibbia americana degli anni ’60, e il giro dei librai di Campo dei Fiori e Via del Pellegrino, gli unici con cui riteneva di poter concludere l’affare, era stato, manco a dirlo, del tutto improduttivo. E se non ci era riuscito nel cuore di Roma con il sacro testo, figurarsi quante speranze potevano esserci con un cumulo di stregoneria pagana.
Di gettarlo via non se ne parlava; la sola idea di mandare al macero un libro, qualunque libro, gli induceva un insopportabile senso di colpa.
E così, in un giorno piuttosto grigio, aveva deciso di mettersi a cercar colori, e aveva finalmente aperto il volume, sperando in chissà quale scoperta.
Con grande disappunto, dopo la prima pagina interna che riportava di nuovo il titolo esattamente con gli stessi caratteri della copertina, e la seconda, dominata dal sorriso sardonico, per non dire malevolo, di una facciaccia da clown, tutte le pagine successive apparvero bianche come la neve.
Deve trattarsi di un diario, che però non è mai stato iniziato, pensò.
Lo stupore aumentò quando ad un tratto si rese conto che c’era qualcos’altro che proprio non quadrava: come poteva un diario, benché inutilizzato, dopo almeno cinquant’anni, esser composto di pagine bianchissime, lucide, pulite e profumate come la culla di un neonato?
Poi, mentre il suo sguardo si perdeva nelle profondità di quell’assenza totale di segni del tempo, sentì uno schiaffo di vento freddo, come se qualcuno avesse spalancato all’improvviso una finestra in una serata di pioggia battente. Impaurito, sollevò lo sguardo e si guardò in giro, pur sapendo che là sotto non c’erano finestre, e quando tornò a posare gli occhi in basso, balzò indietro per lo spavento.
Aveva visto un testo, ed era certo che prima non ci fosse.

Figlio della madre terra
Concepito nel passato
Al fin di una lunga guerra
Fui qui dentro imprigionato


Volle accertarsi che fosse la stessa pagina che aveva visto bianca, come tutte le altre. Era proprio così, era la stessa pagina, ossia la terza, quella dopo il clown, mentre le successive, che sfogliò in fretta, continuavano ad esser bianche.
Si stropicciò gli occhi, e i pochi istanti di quel gesto furono sufficienti perché una seconda strofa fosse apparsa sotto la prima.

Di qui in poi non mi tradire
Abbi fede, mio signore
Il futur saprò predire
Tuo, fedele, servitore

Tutto era scritto in grossi e ingombranti caratteri che parevano antichi, pieni di figure e ghirigori che ornavano le maiuscole e i contorni, e la seconda strofa aveva occupato tutta la metà inferiore del foglio. Senza esitazione, con un’avidità tanto grande da aver sopraffatto il terrore, voltò istintivamente la pagina alla ricerca del seguito.
Decise di mantenere lo sguardo fisso stavolta, e come se venisse scritta da una penna invisibile, che tentò invano di afferrare agitando le mani sopra il libro, vide comparire dapprima la data di quel giorno, in alto, e poi un’altra strofa.

Al calar della giornata
Una donna incontrerai
Ella ti parrà rinata
E te ne innamorerai

Fece appena a tempo a leggerla mentre veniva scritta. Il libro si richiuse repentinamente, quasi con rabbia; il colpo produsse una ventata che lo investì in pieno, costringendolo a proteggersi il viso con le mani.
Tentò inutilmente di riaprirlo, ma il volume sembrava incollato su se stesso, e non riuscì più nemmeno a spostarlo.
Per quanto gli fu possibile, tentò di vivere il resto di quella giornata come una delle tante.
Andò al lavoro, una piccola ditta di vendita di elettrodomestici di cui era capo contabile. Un posto gramo, ma quanto mai necessario. Incontrò gli amici, e non disse loro nulla. Loro lo invitarono ad una festa, che in realtà trovò piuttosto noiosa.
Sulla via del ritorno, si imbatté in un incidente stradale; era appena avvenuto, e non c’era ancora nessuno a prestar soccorso. Si fermò subito e si lanciò verso il centro della carreggiata, dove una donna giaceva distesa con gli occhi chiusi, paurosamente vicino ad un’auto in fiamme. Senza troppo pensarci, infilò le braccia sotto quel corpo, graffiandosi a morte sull’asfalto, e la sollevò, così com’era, cercando di non alterare la sua posizione, per quanto gli fu possibile.
Il corpo era snello e leggero, ma il tragitto era lungo; riuscì a fatica a raggiungere una distanza che valutò sufficiente e la posò di nuovo in terra, stavolta sul prato, soffice e umido di brina.
Dopo averle scostato i lunghi capelli neri che coprivano parte del volto, lei sembrò rinvenire.
Era tremendamente bella, i suoi occhi erano più scuri e profondi del lago di Leeds, la città in cui era nato, e la sua bocca sembrava disegnata per la pura felicità di un uomo.
Lei lo vide e gli sorrise, mentre le fiamme venivano domate dai soccorritori appena giunti.
Si chiamava Lisa e fra una serata al cinema, una festa danzante e un paio di cene romantiche, divenne la sua ragazza fissa. Presto si ritrovò a sperare di non perderla mai.
Decise di non parlarle del libro; era troppo rischioso, lei si sarebbe potuta spaventare, e lui non voleva perderla per un nonnulla.
Ricordò una per una le parole delle tre strofe; aveva avuto la prova delle capacità di quello strumento, che non gli riusciva più di considerare un libro, e sapeva che non poteva e non doveva tradirlo.
Già, ma continuava a chiedersi cosa significasse tradire. Come si fa a tradire qualcosa che non si comprende?
Solo dopo una settimana ebbe il coraggio di scendere di nuovo in cantina. Il libro non era più in terra dove lo aveva lasciato. Si trovava di nuovo in fondo al mucchio, dove lo aveva trovato la prima volta.
Lo tirò fuori e lo aprì.
Giunto alla pagina del clown, notò che stavolta il pupazzo gli strizzava l’occhio; il sorriso maligno era diventato una complice occhiata.
Tutte le strofe che aveva letto erano ancora lì, ma… ora erano scritte al passato e in prima persona, come si fosse trattato di un vero diario!

Al calar della giornata
Una donna ho conosciuto
Ella mi parve rinata
E per lei mi son perduto


Voltò pagina, e di nuovo fu schiaffeggiato da un colpo di vento gelido, ma questa volta non si affannò a cercarne l’origine.

Sono eventi assai funesti
che faran sì che ti desti
e dei tuoi sogni nel cuore
non rimarrà che furore
ma tu non dimenticare
di tradir dovrai evitare


La strofa era diversa, nel tono e nella forma, la rima da alternata era diventata baciata, e stavolta la predizione lo spaventò a morte. Passò la giornata a telefonare ad amici e parenti, accertandosi della buona salute di ciascuno, e a tentare di convincere tutti quelli che poteva a non uscir di casa quella sera usando le scuse più strane: una tempesta imminente, il freddo, lo sciopero degli autobus; evitò di vedere Lisa e anzi la implorò di andare a dormire presto e barricarsi nel suo appartamento. La ragazza non capì, ma gli diede ascolto comunque.
Ma ancora una volta il libro ebbe ragione.
Due giorni dopo, Johnny sopportava le parole di un prete anglicano magro, allampanato e senza emozioni sul sagrato della piccola chiesa di campagna del villaggio di Shaftesbury, in Inghilterra, dove fino a due sere prima suo padre aveva vissuto i suoi ultimi anni felici. Aveva avuto un ictus, che doveva averlo colpito nel sonno. Tutti pensavano che non dovesse quindi aver sofferto troppo, ma Johnny sapeva bene che non era così e anzi si sorprese a figurarsi quali orrende immagini possano nascere nei sogni di un uomo che muore.
Il furore lo accecò.
Lui aveva saputo che una tragedia era imminente, ma non aveva potuto farci un bel niente. Il senso di colpa lo annientava, e la felicità che quel libro gli aveva dato iniziava a trasformarsi in odio, intenso, incontrollabile, sanguinoso.
Poi ricordò le parole della sestina; non poteva tradire. Al diavolo!
Alla fine della cerimonia volò a Roma, rientrò in casa e si precipitò in cantina. Afferrò quel maledetto libro e lo scagliò sul tavolo con disprezzo; i suoi sembravano gli occhi di un pazzo. Ma per quanto tentasse, il volume non si apriva in alcun modo, e in quel momento vi fu una violenta scossa di terremoto.
Johnny si rifugiò sotto al tavolo, e il tomo gli stramazzò proprio davanti. Il ragazzo iniziò a piangere, e le sue lacrime cadevano sulla copertina di legno, dove proseguivano la loro corsa scivolando verso il pavimento, senza asciugarsi. Ancora piangente, Johnny ritentò di aprire il libro e stavolta ci riuscì.
Il clown aveva ora uno sguardo serio, non sorrideva più, ma nemmeno pareva arrabbiato come Johnny si aspettava. Per la prima volta gli sembrò davvero un essere umano. Pensò che prendersela con lui era inutile e forse addirittura ingiusto; lui poteva solo fare previsioni, e niente di più. Tutti quegli eventi sarebbero accaduti comunque, e dunque che differenza poteva fare il fatto di ricevere delle predizioni, oltretutto così imprecise e vaghe?
Fu tentato di andarsene una volta per tutte e abbandonarlo al suo destino, ma poi ci ripensò, temendo che quello sarebbe stato considerato un tradimento, e viste le straordinarie capacità del libro non era il caso di sfidare la sorte.
-E’ solo un libro. Un maledetto libro. Un normalissimo, vecchio libro. Pieno di polvere, per giunta!
Tossì per la polvere che si liberò quando lo aprì, che era dovuta al terremoto di qualche minuto prima.
In due sole settimane la sua vita era cambiata completamente; voleva davvero andare avanti in quel modo? Rammentò ancora quel verso semplice e sinistro. Di tradir dovrai evitare.
E così si rassegnò ad assistere impotente alla nascita di una nuova strofa di quell’assurdo poema della sua esistenza.
Questa volta gli sembrò che le parole si formassero più lentamente, come se il libro avesse timore di rivelargli quel che sarebbe apparso.

Non c’è dolo, non c’è inganno
Verità, ma senz’affanno
Il futur che si vivrà
Non è più di questa terra
Il contabile morrà
E con egli la sua guerra


Esitazione. Sconforto. Terrore. Un grido di dolore.
Johnny lasciò il libro in terra, in mezzo alle lacrime di prima, che erano tutte lì intorno, integre. Si alzò, scivolò su di esse, cadde. Sentì un gran vuoto dentro.
Era dunque così che dovevo morire? Pensò, mentre sentiva le forze abbandonarlo, e l’energia della sua vita evaporare in uno sbuffo di polvere. Perse i sensi.
Riaprì gli occhi sulla flebo che lo alimentava. La stanza d’ospedale era buia. In un angolo, abbandonata su una sedia, vide Lisa, e dal respiro lungo, lento e rassicurante capì che la ragazza dormiva, sebbene in una posizione innaturale, con la testa raccolta fra le mani.
Il dottore arrivò poco dopo, e lo tranquillizzò. Johnny era pronto all’incredibile, e non fu quindi facile lasciarsi convincere che non era affatto morto. Non ancora, perlomeno.
Il medico gli disse che aveva avuto un collasso; il suo cuore si era fermato per alcuni minuti, e nessuno sapeva se e quando si sarebbe risvegliato. Ora era però evidente che non c’erano state conseguenze: lui era lì, era cosciente, e riuscì persino a mettersi in piedi. Aveva dormito, se così si poteva dire, per una settimana.
Un pensiero lo colse di soprassalto: aveva sognato tutto, il libro, le funeste predizioni, la morte del padre? Ma no, Lisa era lì, e anche se lei stessa era per lui bella come un sogno, il tocco delle sue carezze era troppo reale per consentirgli di avere quel sospetto.
E poi, ebbe conferma che il padre era morto.
Eppure, nessuno oltre a lui rammentava il terremoto che aveva avvertito l’ultimo giorno in cui era stato in sé. Johnny pretese che Lisa chiamasse la centrale di polizia per averne conferma, e alla fine non si stupì che anche loro sostenessero che non ne avevano notizia.
Il medico, un uomo basso, tarchiato e terribilmente somigliante al suo papà, disse che era stata la sua maniera di vivere internamente il collasso. Molti pazienti, aveva detto, riferiscono le cose più strane e incomprensibili al loro risveglio, e lui non faceva eccezione.
Johnny ripensò al libro, ma ancora una volta non ne fece parola con alcuno.
Era curioso di tornare laggiù e interrogarlo di nuovo, ma dovette procrastinare il suo proposito, perché fu trattenuto in osservazione per altri tre giorni. Era ancora molto debole e non poteva permettersi di lasciare l’ospedale.
Dopo essere stato dimesso, tornò finalmente a casa accompagnato da Lisa.
Al rientro trovò una lettera; la ditta presso cui lavorava lo aveva rimpiazzato per sopperire all’emergenza, ma il suo posto era ancora a disposizione, naturalmente con altre mansioni. In alternativa poteva fruire di un incentivo e andarsene; era un modo elegante per sbarazzarsi di lui. Colse l’occasione per licenziarsi.
Non gli importava più preoccuparsi di cosa sarebbe vissuto, anche perché sapeva che alla sua ora doveva mancare poco, ormai. Tutte le altre previsioni si erano sempre avverate entro pochi giorni, quando non entro poche ore.
Le parole dell’ultima sestina gli vorticavano nella testa, e si sorprese ad osservare che la sua rima era prima baciata e poi alternata; come se stavolta, in quella predizione, dovessero esserci sia del buono che del cattivo. Ma di buono, da quel momento in poi, non era successo proprio nulla.
Quando si fu ripreso, tornò in cantina, contando i propri passi come fossero gli ultimi. Per quanto si sforzasse di trovarlo, il libro sembrava scomparso. Non era più nel solito mucchio, non era sul tavolo, non era in terra. Chiese a Lisa, con finto disinteresse, se per caso avesse notato in giro un vecchio e pesante volume di legno impolverato. Le disse che era il suo diario, ma lei non ne sapeva nulla.
Trascorsero giorni, settimane, mesi. Niente accadeva, e le speranze di Johnny di poter tornare a una vita normale aumentavano. Lisa era sempre con lui, e non lo perdeva mai d’occhio. I sogni di Johnny erano confusi, a volte spaventosi, talora gli sembrava di rivivere tutto daccapo.
Una sera Lisa gli organizzò una sorpresa.
La ragazza gli disse che nemmeno lei sapeva perché, ma aveva sentito la voglia di portarlo in un posto, e pensava che lui si sarebbe divertito un mondo. Disse anche che lo aveva sognato.
Era una tiepida sera di maggio, e nel giardino le rose non si erano ancora piegate al clima caldo della primavera.
Quando Johnny si ritrovò seduto in prima fila nel “Circo della Vita”, appena sbarcato in città con un gran baccano di pubblicità, si chiese cosa mai avesse potuto spingere Lisa a portarlo in quel luogo.
Lo spettacolo non fu nulla di diverso di quel che un circo poteva offrire: tigri ammaestrate, abili saltimbanchi, scimmie dispettose e maghi un po’ imbranati.
Poi, all’improvviso, apparve lui.
Il clown.
Poco prima che lo spettacolo avesse termine, al culmine di una piramide umana formata dagli atleti e dagli artisti, il suo clown, quello del libro scomparso, con il perenne sorriso disegnato sulla faccia e lo sguardo fiero del proprio trionfo.
Con una serie di balzi degni di un atleta, il clown scese sulla pista, e si esibì in una serie di scherzi che fecero ridere il pubblico. Era la scena finale dello spettacolo, ma Johnny temette che fosse anche l’ultima della sua vita.
Tutti ridevano a crepapelle, bambini sporchi di zucchero filato, donne in abiti fin troppo eleganti, rispettabili uomini che sembravano aver perso ogni contegno. Tutti ridevano, tutti si scompisciavano in modo totale, straripante, eccessivo.
Tutti tranne Johnny. Lui sudava freddo, era paralizzato dal terrore, e nemmeno Lisa se ne era accorta.
Il clown smise di scherzare. Persino il sorriso disegnato sul suo volto sembrò scomparso. Poi protese un braccio in avanti e prese ad indicare il pubblico, esattamente all’altezza del livello in cui lui si trovava seduto. Per fortuna, pensò Johnny, sta indicando dall’altra parte. Poi iniziò a ruotare su se stesso. Cercava qualcuno. Cercava lui.
Piombò il silenzio.
Il clown indicava ora precisamente il posto di Johnny, e tutti, vecchi, giovani, donne e bambini, in quell’agghiacciante, assordante e impetuoso silenzio, si voltarono verso di lui.
Il clown prese ad avvicinarsi a grandi passi cadenzati, resi difficoltosi dalle lunghe e goffe scarpe di scena. Vi fu qualche timida risatina, che risuonò nel silenzio del tendone. Il suo braccio era rimasto teso verso di lui, senza scostarsi di un solo millimetro.
Johnny era spaventato a morte. Voleva fuggire, voleva urlare, voleva sparire. Era giunta la sua ora, e nessuno poteva capirlo. Nessuno, nemmeno Lisa, poteva saperlo, e nessuno avrebbe potuto o voluto aiutarlo.
Finalmente il clown gli fu di fronte e finalmente abbassò quel perfido braccio teso.
Poi gli sorrise, e si frugò comicamente nelle tasche, fingendo di non riuscire a trovare quel che stava cercando.
Quindi lo trovò, lo sollevò girandosi verso tutto il pubblico, che esplose in uno scrosciante applauso di approvazione.
Maledizione, pensò Johnny, sono l’unico qui che non si sta divertendo? Anche Lisa continuava a ridere, convinta che a Johnny facesse piacere essere al centro dell’attenzione di tutta quella gente, dopo tanto soffrire.
Quel che il clown aveva estratto era una busta, su c’era scritto solo:

“per Johnny”

con gli stessi, identici, amati, odiati, dimenticati e risorti caratteri del libro scomparso, il diario delle sue sventure.
Mio dio, dunque non era affatto finita!
Il clown si inchinò in un cortese gesto di saluto d’altri tempi, e scomparve in una nube scintillante di vapore. Il pubblico emise un boato di stupore e iniziò ad applaudire soddisfatto.
Johnny infilò la busta in tasca e ancora tremante si mise in coda per uscire.
Quella sera decise di rimanere da solo con il suo destino, e si congedò da Lisa, sforzandosi di ringraziarla per quella che non esitò a definire un’enorme, inaspettata sorpresa.
Si versò un bicchiere di porto, sedette sulla poltroncina e rimase per alcuni minuti a guardare la busta, adagiata sul tavolo.
Infine, si decise ad aprirla.

La morte sovviene nei sogni
Di color che, uomini e donne
Non sentono più il desiderio
Che metta in oblio i lor bisogni
Perché crollino case e colonne
Che impediscono il giusto criterio

Ed or, che non hai più il mio libro
Lasciarti è la gioia in cui vibro
Perché d’arte, dannata e pulita
Sol sia fatta in futur la tua vita
E che tu, di sogni e memorie
Voglia viver, facendone storie.
Se con tanto penare mi hai letto
Or sei tu che darai diletto
Alla tua ed all’altrui prole
Sarai tu, a donar le parole.


Johnny lasciò cadere il foglio, si alzò e si guardò allo specchio. Gli parve di vedere un amico, che gli sorrideva e lo indicava.
Il contabile era davvero morto.
Sospirò felice, si sedette, e iniziò a scrivere.

mercoledì 19 novembre 2008

Per amore

Questo breve racconto è giunto terzo al Premio Alois Braga, edizione speciale 2008.

Non avrei mai pensato che sarei stato felice di entrare in una Chiesa.
Eppure quel giorno lo ero, e molto. Sono sempre stato un ateo impenitente, e se fosse stato per me Helene non avrebbe dovuto sposarsi in Chiesa. Fosse stato per me Helene non avrebbe dovuto sposarsi affatto. Ma non era da me che poteva dipendere quella scelta.
Lasciando da parte il mio pensiero sull’argomento, devo riconoscere che fu proprio una bella giornata. Una splendida giornata di sole nel cuore delle alpi, lassù, a milleduecento metri; era lì che si trovava la piccola cappella degli alpini che lei aveva voluto. Gli invitati mormoravano che lui aveva accettato con gioia tutte le scelte che lei aveva fatto riguardo quella giornata. Non ho alcuna difficoltà a capirlo. Anch’io al posto suo l’avrei lasciata fare.
Helene è sempre stata così. Persino quando era in difficoltà enormi; difficoltà che spero che ora lei non ricordi neppure nei suoi peggiori incubi. Voleva sempre decidere in prima persona; non lasciava mai che qualcun altro lo facesse al posto suo, nemmeno se era convinta che fosse per il suo bene.
L’avevo conosciuta molti anni prima. Era difficile dire esattamente quanti, e lo è tuttora. L’avevo amata, e forse quel giorno la amavo ancora. Ma chi voglio prendere in giro… la amo ancora oggi.
L’aria era ferma, il sole era caldo, e l’odore dell’erba fresca e dei fiori dei monti mi stordiva, tanto era forte. Sono abituato all’odore acre del solfuro, a quello pungente dell’ipoclorito, a quello dolce del permanganato, io; per me il puzzo del gas dei becchi buntsen usati per scaldare le provette è stato un compagno di gioventù. Sono sempre stato un animale da laboratorio, e per fortuna, dico oggi; poi a lei questa mia vocazione era sempre piaciuta, tutto sommato.
L’altro topo da laboratorio, mi chiamava sempre.
Tutt’intorno, il vociare diffuso dei pochi invitati si confondeva con il ronzio delle vespe; a tratti, le campane del vicino pascolo delle vacche facevano il solo rumore che interrompeva quella monotona, dolce e soporifera sinfonia. Avrei potuto addormentarmi sereno, disteso sul prato fiorito.
Ma quella giornata, per il Dio di Helene, non l’avrei mai persa per nulla al mondo.
La cerimonia era già finita, in realtà; c’era stato anche il lancio del riso, e lei ora stava girando fra gli invitati, per i saluti, gli auguri, i sorrisi.
La vidi camminare. La vidi correre. La vidi persino saltellare come una bimba verso il vecchio zio che tanto amava, da sempre.
Quando mi vide, feci in tempo a strofinarmi e asciugare le lacrime sotto i provvidenziali occhiali scuri. Si avvicinò a me, titubante, indecisa. Continuava a fissarmi, e conoscendola sapevo benissimo quanto si stava sforzando di ricordare, per arrivare da me con un nome e un saluto pronti fra le labbra. Per un attimo pensai che mi avesse riconosciuto. Sarò sincero, lo sperai. In fondo non ci sarebbe stato nulla di male.
Naturalmente non fu così.
-Buongiorno.- dissi io per primo per rompere il ghiaccio.
Aveva i capelli corti, come se in quella nuova vita avesse deciso di trasformare anche il suo aspetto. Era ancora più bella di come la ricordavo, e non poteva che essere così.
-Buongiorno…- ricambiò.
-Io sono Jean. Jean Blisset.
Avevo mentito, ma solo in parte. Non so perché, ma non ce la feci a presentarmi con il mio vero nome. Quel giorno non potevo permettermi di essere me stesso. Altrimenti avrei rischiato di provarci gusto, e avrei potuto rovinare tutto.
-Allora lei è…
-Sono il fratello di Antoine.
-E dov’è lui? Antoine… è qui?
-Purtroppo Antoine non è potuto essere presente. Si trova all’estero per un appuntamento di lavoro. Non poteva mancare; mi ha mandato personalmente, per farsi perdonare.
Sorrise.
-Antoine non ha proprio nulla da farsi perdonare da me. Mai.
-So che è stato molto importante nella sua vita.
-Antoine me l’ha salvata, la vita. Avevo solo quattro anni. Se quel giorno lui non fosse stato lì a prendermi e strapparmi via all’improvviso, io sarei stata investita da quel pirata. E ora sarei morta.
No, non saresti morta, piccola mia. Sarebbe stato peggio, molto peggio.
-Sa- aggiunse -è il ricordo più lontano che ho dentro di me. Il primo ricordo, forse, dalla mia nascita. Sento ancora le sue braccia calde che mi stringevano. Lui è il mio eroe. L’unico vero eroe della mia vita.
Arrossì.
-Sono venti anni che non lo vedo- aggiunse -Lei gli somiglia tanto, sa?
Sentivo che la piccola che avevo salvato quel giorno si era davvero innamorata. Non poteva che essere così. Peccato che in quella vita io avessi trentaquattro anni più di lei.
Ora aveva un uomo. Era giusto, era bello così. Lui era uno a posto. E io fui ancora più pieno di lei, dei miei ricordi, dei nostri momenti infiniti a guardare le stelle sui monti.
Io avevo faticato ad adattarmi, all’inizio. Avevo faticato immensamente. Ero arrivato laggiù solo un paio di giorni prima dell’incidente, appena in tempo per iniziare il viaggio con cui raggiunsi il posto preciso, per intervenire all’ora giusta.
L’avevo vista sulla curva, all’alba, e mi ero lanciato verso di lei. Sapevo chi guidava quell’auto. Ma questa volta non sarebbe stato importante che lo prendessero.
Mi bastava che lei si fosse salvata.
Helene non sarebbe finita su una maledetta pietosa sedia a rotelle per il resto della sua vita.
Per inciso, non mi avrebbe nemmeno mai conosciuto, non ci saremmo mai innamorati, non avremmo vissuto insieme. E, ora lo so per certo, io non avrei mai conosciuto il mio compagno di stanza all’università, Didier, il mio complice in questa pazzia; il topo da laboratorio, come lo chiamava lei, l’amico comune che ci aveva fatti incontrare.
La lasciai il giorno prima della partenza. Pensavo che così sarebbe stato più facile, anche per lei.
Facemmo l’amore quella sera, e poi le lasciai un biglietto; le spiegavo quanto l’amavo, ma anche che era finita. Diedi la colpa ai miei studi, alla mia carriera all’università.
Era l’unico modo in cui potevo farlo; non avrei mai potuto dirle dove andavo, né perché. Mi avrebbe considerato pazzo, o peggio ancora, mi avrebbe creduto e sarebbe forse anche riuscita a fermarmi. No, l’unica maniera fu lasciarla, con amore, ma senza dubbi. Sperai che avrebbe tentato di odiarmi, e temetti che non ci sarebbe mai riuscita.
Si stava alzando il vento.
La voce di Helene, lassù in montagna, mi risvegliò da questo turbinare di ricordi.
-Si sente bene?- mi domandò.
-Certo. Mai stato meglio di oggi, mi creda. E’ stato davvero bello conoscerla.
Chiacchierando, avevamo passeggiato per alcune centinaia di metri verso valle. Eravamo lontani dagli sguardi degli altri e mi salutò con un bacio sulle labbra. Rimasi sorpreso, ma da parte sua fu un atto spontaneo e naturale; per me invece fu travolgente, quasi come un altro balzo nel tempo.
-Porti il mio bacio ad Antoine- sussurrò.
Poi, senza guardarla, mi girai e iniziai a scendere.
Annegai nelle lacrime.
Ora, mi rimane l’unica parte divertente di tutta questa assurda storia.
Chissà se Didier mi crederà, quando domani gli dirò che il suo esperimento è riuscito. Mi riconoscerà, così invecchiato? Penserà ch’io sia un impostore? Chiamerà la polizia? Non sarà facile convincerlo che la sua macchina assurda ha funzionato.
Chissà se anche in questa vita Didier sta provando a realizzare il suo sogno; chissà se sta cercando qualcuno da spedire indietro nel tempo, come ha fatto con me.
Un pazzo, che pur sapendo che non c’è ritorno, si offra volontario.
Magari, per amore.