Questo racconto, il secondo in assoluto che ho scritto, è risultato finalista al Premio "Il Prione 2005" e al Premio "Tabula Fati 2005" ed è stato pubblicato nell'antologia "I Racconti del Prione 2005", Edizioni Giacché, La Spezia.
http://www.premiotabulafati.it/vincitoripremio2005.htm
Sono grato alle edizioni Giacché per il loro serissimo concorso letterario, che mi consentì la prima pubblicazione in assoluto di un racconto.
Buona lettura.
Sono grato alle edizioni Giacché per il loro serissimo concorso letterario, che mi consentì la prima pubblicazione in assoluto di un racconto.
Buona lettura.
Il pianeta dei giganti
“In questo pianeta ci sono molti pazzi…” pensò Zobrai, mentre con la sua astronave si allontanava dalla radura in Amazzonia dove le gigantesche ruspe avevano disintegrato, durante la notte terrestre, centinaia di grandi alberi.
Uno di questi, un’alta Copaiba, aveva rappresentato una comoda base di atterraggio, prima che venisse abbattuto alle prime luci del mattino.
Grazie alla microgravità normalmente impercettibile agli uomini, ma sempre esistente tra due masse contigue, una porosità della superficie inferiore di una grande foglia verso la sommità del fusto era servita come ricovero sicuro per la nave monoposto, con la quale Zobrai aveva impiegato appena cinque anni a raggiungere il “Pianeta dei Giganti”.
Così veniva chiamata la terra nel linguaggio dell’astronomia Vegana.
Zobrai era un fiero e coraggiosissimo “Esploratore di I classe” proveniente da un mondo nel quale le coordinate dello spazio e del tempo hanno ordini di grandezza molto diversi da quelli propri della Terra; la vita media su Vega corrisponde a circa centomila anni terrestri, ragione per la quale un viaggio di cinque anni non rappresentava, anche nel vissuto percettivo, che uno spostamento di modesta durata.
Viceversa, lo spazio si colloca in un ordine di grandezza infinitamente minore; la statura del vegano medio è circa di mezzo Micron, poco più di un mitocondrio cellulare.
Naturalmente, questo particolare ordine di interazione tra spazio e tempo ha consentito alle genti di Vega di conquistare rapidamente tutte le conoscenze necessarie allo sfruttamento delle proprietà della luce. Solo siffatte dimensioni possono infatti consentire di impiegare, quasi senza entropia, l’energia concentrata in ogni singolo fotone di un fascio luminoso.
Naturalmente anche la comunicazione, continua, di Zobrai con il suo pianeta d’origine, avveniva attraverso la luce, che i Vegani hanno imparato a utilizzare come conduttore di pensiero.
I Vegani, che comunicano tra loro solo telepaticamente, hanno sempre incontrato molta difficoltà a muoversi, per di più alla velocità della luce, nello spazio di un pianeta dove la durata degli eventi e delle vite di tutte le forme è, dal loro punto di vista, rapidissima.
Per non parlare poi delle enormi dimensioni che fanno di qualunque oggetto terrestre un ostacolo fisico potenzialmente pericolosissimo.
Era questo il motivo per cui le direttive di esplorazione non ammettevano il sorvolo a bassa quota.
Ma Zobrai aveva desiderato visitare il “Pianeta dei Giganti” più di ogni altro mondo conosciuto.
Il suo viaggio era ormai giunto quasi a termine, dopo la “breve” permanenza di circa due anni terrestri.
In trenta secondi il Vegano lasciò la costa brasiliana e raggiunse quella portoghese, lungo la quale si trovava la latitudine corretta per intraprendere il viaggio di rientro.
“Un ultimo giro su Lisbona”, pensò, mentre, con le quattro braccia conserte, comandava telepaticamente alla sua nave di volgere verso il Sud terrestre e sorvolare l’estuario un’ultima volta, quasi a salutare definitivamente il Pianeta prima di ripartire.
Ma benché fosse il frutto di una grande perfezione tecnologica, la nave, che misurava circa dieci micron in lunghezza e risentiva quindi molto bruscamente dei venti planetari, perse improvvisamente quota e si ritrovò molto, troppo vicina al suolo.
E all’improvviso fu il buio. Vi fu una violentissima scossa e la nave si fermò contro una parete inclinata.
Zobrai non riusciva a capire cosa stesse accadendo e dove potesse essere finito. Iniziò ad eseguire l’analisi biochimica e fisica dell’ambiente esterno, attraverso i potentissimi sistemi di monitoraggio in dotazione.
Manuel parcheggiò in fretta e uscì dalla sua auto.
Il parcheggio dell’ospedale era quasi vuoto, per cui scelse di non seguire l’itinerario pedonale e tagliare attraverso il piazzale.
Scavalcò il muretto di cinta per entrare il più presto possibile; era in ritardo e lo stavano aspettando in studio, dove i pazienti della clinica neurologica dovevano essere visitati entro la mattina per poi essere eventualmente ricoverati.
La neurologia era sempre stata la sua passione, ma i tempi dell’Università erano ormai lontani, e la routine quotidiana era fatta di visite in ambulatorio, esecuzione di TAC, elettroencefalogrammi e Risonanze Magnetiche, tutto ovviamente a carico dello stato.
Il neurologo non guardò, prima di attraversare il vialetto.
L’ambulanza numero quarantatre, che stava correndo a sirene ormai spente, come la severa procedura di ingresso in ospedale impone, verso il posto di Pronto Soccorso per scaricare un infartuato gravissimo, lo travolse in pieno.
Manuel la vide quando era ormai troppo tardi e fece in tempo a realizzare che sarebbe stato scaraventato molto in alto, quasi cercando di abbozzare un salto per togliersi di mezzo; in quel momento, per un istante infinitamente breve, vide una luce intensa e pensò che forse era la porta dell’aldilà che si stava aprendo.
Manuel fu proiettato a quattro metri dal suolo, il corpo ormai senza conoscenza volteggiò sopra l’autoveicolo che lo aveva investito e cadde a terra dietro ad esso, come un sacco di patate lanciato da uno scaricatore, emettendo un rumore sordo di ossa fratturate e iniziando a spargere sangue sull’asfalto.
Il medico fu portato in sala operatoria e sottoposto ad intervento urgente.
Venne immobilizzato per le numerose fratture; non si evidenziarono emorragie interne. In Ospedale si pensò che fosse un miracolato a non essere morto sul colpo.
Ma la perdita di conoscenza conseguente al trauma durò più del previsto; dopo una settimana Manuel non si era ancora risvegliato. La prognosi rimase riservata e il collega neurologo che lo seguiva riportò in cartella la definizione di “coma vigile”.
-Spiegati meglio, Josè, che vuol dire che ci sente ma non capisce? – domandò in lacrime Lara, moglie di Manuel, accorsa in ospedale.
Cercando di nascondere l’angoscia per le gravi condizioni dell’amico, Josè rispose:
-Significa, Lara, che le sue facoltà sensoriali sono integre. Probabilmente può sentire le nostre voci, percepire l’odore dell’alcool della flebo, se aprisse gli occhi potrebbe forse anche vederti. Ma questi segnali rimangono sensazioni senza elaborazione cerebrale, non producono… vere percezioni, né immagini. In ogni caso, è molto difficile stabilire il livello di contatto con la realtà circostante di un paziente che subisce una scarsa ossigenazione di alcune aree corticali a causa di una serie di coaguli necrotici nei capillari; sono… ostruzioni… sparse qua e là, che tendono a privare il suo cervello delle sostanze necessarie. Stiamo somministrando potenti anticoagulanti, speriamo che facciano effetto, e presto.
Josè, caro amico dello sfortunato collega, cercò di spiegarsi al meglio, ma ovviamente Lara non poteva, né desiderava, capire. Tutto ciò che la donna voleva era che Manuel si svegliasse, e immediatamente!
Quello che i due non immaginarono nemmeno lontanamente, era che Manuel fosse in grado di sentire, e capire, ogni singola parola avessero pronunciato.
Manuel era infatti perfettamente lucido, e altrettanto perfettamente paralizzato fino alle estremità. Poteva formulare mentalmente pensieri, esclamazioni, urla di angoscia e disperazione, richieste di aiuto, ma non era in grado di muovere un solo muscolo labiale per parlare, né di piegare nemmeno una falange di un dito per svelare la propria attività cerebrale cosciente.
Zobrai aveva completato l’analisi biochimica e fisica ambientale; i risultati evidenziarono materiali biologici umani come costitutivi dell’intera zona. In particolare, le componenti prevalenti erano emoglobina, ossigeno e acqua.
Zobrai non tardò a capire.
-Sono dentro un gigante!- esclamò. Solo in momenti di intensa emozione, ai Vegani capita di utilizzare l’emissione sonora, sebbene si tratti di ultrasuoni, un residuo genetico ancestrale, anziché la normale emissione telepatica del pensiero.
E questo fu il caso, proprio durante lo svolgimento di una ecografia sulla carotide di Manuel, il che provocò un’immagine anomala sullo schermo dell’apparecchio; accorgendosene, Josè esclamò:
-E questo…? Che diavolo è!? Manuel, meno male che non sei qui a vederlo…
José stava compiendo un’analisi dell’arteria carotide; aveva infatti nascosto a Lara il vero motivo della sua preoccupazione maggiore, un grosso e pericolosissimo coagulo situato nell’arteria, che entro poco tempo avrebbe condotto il paziente al coma irreversibile.
Era un caso; il coagulo era pre-esistente all’incidente e rappresentava un problema molto serio.
Manuel, che stava rassegnandosi a quella che si stava delineando come una lunga, estenuante e silente attesa di uscire dall’infernale tunnel, non poté vedere il monitor dell’ecografo, ma da bravo clinico, qual era, e cercando di cogliere disperatamente tutti i segnali e le voci che lo circondavano, intuì qualcosa di molto strano nelle parole dell’amico e collega. Ma proprio non riuscì a capire cosa Josè avesse visto, a parte che cominciava a sospettare che aveva le ore contate.
L’unica uscita dal tunnel portava alla morte.
Zobrai non si era mai imbattuto in un’esperienza simile, che fino ad allora aveva sempre temuto e tentato accuratamente di evitare, ben conscio dei rischi che la situazione poteva implicare; primo fra tutti, la difficoltà di orientarsi in un organismo, quello dei “giganti”, ancora troppo poco noto alla scienza vegana da poterne venir fuori facilmente.
La piccola astronave era preda dell’impetuosa circolazione sanguigna. Si trovava ora in un capillare periferico e il torrente circolatorio, ricco di globuli rossi e quant’altro, produceva forti turbolenze.
Naturalmente la microscopica nave, realizzata con leghe metalliche avanzatissime, era a perfetta tenuta stagna; il propulsore positronico avrebbe consentito comunque il movimento, per quanto molto lentamente, a causa delle variabili resistenze esterne della viscosissima sostanza organica.
Il primo problema da risolvere era tentare di verificare la posizione e quindi la direzione verso cui muovere; Zobrai decise di attivare il laser in opzione di diffrazione, sperando di riuscire così a “illuminare” in qualche modo l’ambiente esterno e ricavarne segnali potenti che gli consentissero di “vedere” lo spazio circostante (l’occhio vegano percepisce le frequenze ultraviolette emesse in reazione a un fascio di luce laser), ma senza produrre lesioni nei tessuti; un danno all’organismo ospite avrebbe compromesso ogni possibilità di salvezza.
Fino ad allora, il minuscolo vegano aveva raramente tentato il contatto con i Giganti che abitavano il Pianeta, operazione che del resto era ormai molto agevolata dall’immenso vocabolario multilingue che il suo traduttore telepatico universale aveva accumulato durante la permanenza.
Zobrai si rendeva conto che un tentativo di comunicazione avrebbe potuto avere conseguenze drammatiche, ma un po’ per paura, un po’ per l’indole fortemente istintuale che contraddistingue gli Esploratori vegani di I Classe, formulò un pensiero semplice in un perfetto portoghese.
Il vegano sperò che, pur essendo il segnale originato all’interno dell’organismo ospite, le aree corticali della sensazione uditiva potessero recepire la domanda in modo comprensibile.
“Puoi sentirmi?”
Manuel percepì perfettamente la frase e, scambiandola per una voce proveniente dall’esterno, pensò che qualcuno del personale sanitario, per la prima volta, gli stesse rivolgendo la parola…
Finalmente!
Quanto tempo aveva aspettato perché qualche brillante infermiere o magari un intelligente specializzando in neurologia avesse un’intuizione da 30 e Lode e tentasse di comunicare con lui, senza arrendersi allo scoraggiante quadro diagnostico.
A questa prima emozione fece seguito nell’uomo il profondo sconforto legato alla frustrante impossibilità di replicare.
Ma, ovviamente, Manuel pensò.
“Maledizione! Certo che posso sentirti, sei tu che non puoi sentire me… purtroppo!”
“Non è così, io… posso sentirti”, rispose telepaticamente Zobrai.
E dopo una esitazione:
“Io sono dentro di te…”, aggiunse.
Manuel non era in grado di muoversi, e quindi non fu certo capace di palesare materialmente la reazione di panico che pur ebbe e che percorse tutte le immobilizzate sinapsi del suo sistema nervoso.
Tuttavia entrò in forte tachicardia e questo preoccupò non poco l’amico Josè che non lo perdeva mai d’occhio sul lettino della terapia intensiva.
Manuel pensò di soffrire di allucinazioni uditive, ritenne che in un caso del genere, questa potesse essere l’unica spiegazione razionale.
“Non si tratta di allucinazioni” aggiunse Zobrai, “io sono davvero dentro di te. Devi credermi, io non sono di questo mondo, sono finito qui per errore. Sono ciò che tu chiameresti un ‘extraterrestre’ e… ho paura, anche più di te. Vorrei solo poter uscire dal tuo grande corpo, e lasciarti… in pace”
Ormai convintissimo di delirare, Manuel domandò, ovviamente pensandolo, come ciò fosse possibile.
Il vegano, che a sua volta non sapeva dare una risposta soddisfacente, tentò comunque di convincere il Gigante. Procurarsi la sua alleanza era l’unica strategia possibile.
“Stavo per allontanarmi dal vostro pianeta, ma all’improvviso ho perso quota e mi sono ritrovato qui. La mia nave è ‘microscopica’, per usare un termine che tu potrai comprendere in rapporto alle dimensioni a cui sei abituato; e lo sono anch’io, del resto. Mi trovo nel tuo sistema circolatorio, e sono incagliato in una massa fibrosa che i miei sistemi indicano costituita di cellule schiumose, ioni di calcio e proteine umane”.
Manuel rammentò all’improvviso la reazione del collega durante lo svolgimento dell’ecografia carotidea, e con un’intuizione degna del grande ricercatore che era stato un tempo, semplicemente fece un’ipotesi.
“Sei incagliato nel coagulo che mi sta uccidendo! Devi essere entrato nel mio corpo attraverso il mio naso, e dopo l’assorbimento in circolo attraverso le mucose dei seni paranasali sei probabilmente passato nell’ipofisi; le vene devono averti riportato al cuore, che poi, che assurdità sto dicendo, Dio mio, ti ha sospinto fino nella mia arteria carotide!”
Zobrai, sollevato all’evidenza che il gigante stesse accettando la comunicazione, capì che i due avevano in quella massa di cellule un problema comune.
“Lascia che ti aiuti”, ribatté temendo che la replica non sarebbe stata gradita, “potrei… intervenire… con il mio laser, potrei… distruggere questo… com’è che lo hai chiamato…? Coagulo! Ma poi tu dovrai dirmi come uscire da te”.
“D’accordo…” rispose imprevedibilmente l’uomo, ormai rassegnato all’immagine di una morte certa, rispetto alla quale questa ipotesi di “intervento” oscillava tra l’incredibile assurdità e la fase inoltrata di un delirio dissociativo ormai irreversibile.
“Ma fa’ molta attenzione”, aggiunse in un ultimo istintivo anelito verso la sopravvivenza, “…devi assolutamente evitare di toccare la parete interna del canale in cui ti trovi, l’arteria, o morirò in pochi secondi per emorragia interna, e tu con me. Cerca di colpire la parte che vedi più bianca”.
Ma Zobrai non conosceva affatto i colori, o meglio, non era in grado di percepirli; la sua visione ultravioletta non gli permetteva di dare un significato alle parole umane con cui si identificano i cromatismi del campo visibile; ad ogni modo rispose che avrebbe fatto come il gigante diceva, ben sapendo che la puntualizzazione di questa difficoltà non avrebbe portato nulla di buono.
Attivò il laser nell’opzione di combattimento e produsse un raggio fortemente distruttivo.
Eseguì un lavoro minuzioso, grazie all’esperienza accumulata sul suo pianeta durante l’addestramento degli Esploratori, che prevedeva anche la rimozione di ostacoli fisici di varia natura all’itinerario di ricerca; riattivò così la circolazione nell’arteria.
“Credo di aver avuto successo”, aggiunse a lavoro ultimato. “Ora, ti prego, Manuel, spiegami dove devo andare. La mia nave è perfettamente asettica, non c’è rischio di alcun tipo di… infezione”.
Manuel continuava a chiedersi se stesse parlando con Dio, o se il delirio facesse parte del passaggio al coma profondo. Non aveva conoscenze, nessuno al mondo poteva averne, o quantomeno rivelarle, sulla situazione neurologica degli stadi avanzati delle situazioni comatose.
Pensò che, se questo era il caso, non avrebbe probabilmente mai potuto rivelare a nessuno la sua sensazionale scoperta.
In ogni caso, aggrappandosi all’intuito e alla speranza e cercando di calmarsi per rammentare le più elementari nozioni di anatomia cerebrale, accettò di collaborare.
“Se sei ancora nell’arteria carotide”, rispose, “…la via più breve è seguire passivamente il flusso del sangue, entrare così nei capillari corticali e poi immettersi nelle guaine mieliniche che avvolgono i nervi cerebrali. A tale scopo dovrai superare la barriera emato-encefalica, e non sarà affatto facile… è come un alto muro poroso; dovrai poi individuare la corteccia visiva, dove normalmente si formano le immagini… e da lì dovrai tentare di seguire uno dei numerosi filamenti grigi che in questo momento sono inattivi e quindi privi di impulsi elettrici e di pericoli.
Pensava velocemente, cercando di ricordare tutto ciò che sapeva della neurofisiologia umana.
“Dovrai… percorrerlo… seguirlo sino a raggiungere una grande massa centrale, il chiasma, e continuare poi lungo un filamento più grosso, il nervo ottico, fino a raggiungere uno dei miei… dei miei occhi. In quel punto, Dio mio, Dio mio!”, continuò con affanno, “ …in quel punto la mucosa dei tessuti è molto sottile, altamente idratata e permeabile... da lì, forse, potrai… uscire. Non so se… poi… tu… l’occhio… come…”
“Grazie”, rispose Zobrai.
Manuel si rese conto che non riusciva più a formulare pensieri coerenti. Riprese a concentrarsi sull’ambiente esterno e capì, dai rumori che ben conosceva, di essere in una sala operatoria. L’anestetico generale iniziava infatti a entrare nel suo corpo, producendo, lentamente, una dolcissima, piacevole, agognata sensazione di tranquillità, assoluta.
E fu sonno.
L’amico stava tentando l’impossibile; l’intervento che si apprestava a condurre era destinato a rimuovere con una sonda sperimentale il coagulo carotideo.
Lara non smetteva di piangere nella prospiciente sala d’attesa.
Dopo trenta minuti, Josè uscì dalla sala operatoria e gridò:
-Tutto bene!
Lara pianse, e ancora pianse.
Considerando la situazione, Josè non rivelò a Lara che l’impossibile era accaduto. Il coagulo era… scomparso, dissolto, disintegrato, come se non fosse mai esistito; l’arteria di Manuel era più pulita di un tubo di zinco nuovo di zecca.
Miracolo? Remissione spontanea? Forse, ma non gli importava proprio più nulla. Oltre che medico di fronte al misterioso funzionamento del corpo umano, era l’amico di un amico che ora sarebbe potuto davvero guarire e tornare alla vita.
Manuel fu riportato nella sua stanza e si svegliò per un solo istante, aprì gli occhi e si riaddormentò. Ma stavolta non fu coma, bensì un lungo e dolcissimo sonno fisiologico.
E dando così libertà alla parte più inconscia e affascinante dell’essere umano, l’uomo sognò.
Vide una luce abbagliante, che illuminava il grandioso spettacolo della regione di Lisbona, dall’estuario del Tago fino a Cascais, e nel cielo verde e viola, un’autoambulanza che volava sempre più in alto, fino a pianeti sconosciuti, lontanissimi, splendidi… alla guida c’era lui, e seduto accanto, un amico di nome Zobrai, che lo guardava, e mettendogli una mano sulla spalla gli diceva:
-Sei davvero… ‘grande’, tu…
Si risvegliò solo al mattino successivo. Entrò in bagno e si guardò allo specchio. Pensò a Lara.
Aprì la finestra, vide il sole illuminare Lisbona, proprio come nel sogno, e girò la manopola del rubinetto dell’acqua calda.
All’improvviso iniziò a piangere. Piangeva ininterrottamente, Manuel, piangeva per ragioni profonde che non gli interessava più comprendere con la logica.
Poi si guardò nuovamente allo specchio. Vide una lacrima splendente di luce, la stessa luce del giorno dell’incidente, e nel silenzio, all’improvviso percepì un pensiero che non era suo:
“Grazie, amico mio. Sta’ bene. Continua a sognare”.
La piccola nave uscì attraverso la finestra e Zobrai riprese la rotta verso casa.
Nessun commento:
Posta un commento