Ducato di Schleswig-Holstein, Impero di Prussia, Novembre 1866.
Hans ascoltava con scarso interesse le elucubrazioni mentali del Conte Von Harkel sulla presunta “superiorità” della Prussia.
Quelle parole producevano in lui poco più che un debole rumore di fondo, mentre la sua mente si concentrava sulle argomentazioni che avrebbe usato quando il tema principale a tavola sarebbe finalmente diventata la spartizione delle terre dell’Husum.
Era infatti la sorte della penisola del Nordstrand che gli interessava, più di ogni altra cosa.
Da quasi vent’anni aspettava di tornare in possesso della casa paterna, lassù, su quello sperone di roccia all’estremità della piccola lingua di Prussia bagnata dal mar di Danimarca.
Dal giorno in cui il nonno si era gettato in acqua per non cadere prigioniero dell’esercito danese e la proprietà era andata in malora. Aveva resistito fino all’ultimo, il vecchio Hans Vielhoven; prima di decidere di saltare aveva impallinato ben tre archibugieri reali con la sua carabina da caccia grossa. Non si seppe mai se avesse voluto tentare la fuga o farla finita, pur di non essere preso vivo.
-Giovane Vielhoven!- proruppe il Conte dopo aver trangugiato il suo boccale di birra bianca -non temete per la vostra casa! non ci sono più porci danesi a minacciare i rampolli delle famiglie germaniche, non da queste parti, almeno!
Un coro di grasse risa e uno scrosciante applauso posero fine al contegno che fino a quel momento aveva regnato in seno alla ripristinata Giunta ducale dello Schleswig-Holstein.
Hans sbrigliò i ricordi e li lasciò vagare liberi sulla terra del Nordstrand, tornò alla realtà presente e sorrise amabilmente ai convitati. L’interminabile sfilata di bandiere avvolgeva immobile lo spazio in alto, lungo tutto il ballatoio in legno d’abete che sovrastava la ricca tavola dei nobili prussiani.
Il giovane stentava a reggere lo sguardo del Conte che ancora lo stava fissando, mentre impugnava il boccale in cenno di salute; gli sembrava che quegli occhi di ghiaccio bianco fossero privi di vita. Sembravano gli occhi di un cieco, nella vista e nel cuore.
In quel momento, il giovane Hans si sorprese a ricordare le ultime parole del nonno, che aveva udite poco prima che questi si gettasse dall’altura. Ricordava alcuni dettagli di quel momento in modo molto nitido, come se avesse vissuto la scena mille e mille volte: i soldati danesi in uniforme grigia, che sparavano dal boschetto di betulle, il mare verde in tempesta contro il cielo rosso della sera, e il fumo bianco e denso che saliva dal comignolo.
E poi il vecchio Hans, che, persi gli occhiali, si voltava, gettava in terra la carabina bestemmiando e iniziava a correre sfrenato verso il precipizio, gridando a squarciagola: per la grande madre Prussia!
Ma appena cercava di muovere lo sguardo della memoria sul resto di quella scena, non riusciva a scorgere altro, né a destra, né a sinistra; né in basso, né in alto. In pratica, gli sembrava di poter mettere a fuoco solamente quelle parti dell’immagine; il resto era… avvolto nella nebbia.
Gli spazi tra gli elementi principali erano privi dei tasselli mancanti.
Di che colore erano le foglie? qual era l’umidità del prato? e l’altezza della casa? E sì che avrebbe dovuto conoscerla bene, quella casa. Eppure, per quanto si sforzasse, non rammentava nemmeno come fosse suddivisa al suo interno. Si sorprese a chiedersi se ci fosse mai vissuto, nella grande casa sul mare dal lungo comignolo, che sempre fumava, nei suoi ricordi dell'infanzia.
Non fu in grado di rispondere, e un brivido gelido corse lungo la sua schiena. In quell’istante provò una nausea molto acuta, e un senso di pesantezza; temette di svenire. Tutto intorno a lui sembrò iniziare a muoversi confusamente, mescolandosi all’immagine dei ricordi. Gli occhi del Marchese intrapresero un battito di palpebre che sembrò svolgersi con lentezza infinita, la stessa con cui Hans sentì che stava perdendo inesorabilmente i sensi.
-Dell’acqua, per Dio, qualcuno porti dell’acqua a questo giovane!
L’arbitro Hastings gridava a squarciagola, i barellieri correvano, e il gioco era fermo.
Paul Fletcher, giovane mediano di mischia dei Barbarians di Cardiff, aprì gli occhi. Era steso sul prato, nel campo di Rugby di Reading, al trentanovesimo minuto del secondo tempo della partita contro i blasonati (in tutti i sensi) Royal Fox di Windsor, sotto il caldo sole del luglio 1890.
Quando il giovane finalmente si fu riavuto, l’arbitro Hastings stava ancora dandogli qualche colpetto sulle guance, ed esclamava ripetutamente: - animo, figliolo, animo…
Con grande sorpresa dei presenti, ossia le due squadre al completo, l’arbitro Hastings e i guardialinee Patcher e O’Sullivan, i barellieri, il medico appena giunto, Dottor Galliver, e Miss Annie Beckerfield, l’anziana e arzilla patrona della squadra di casa con il corteo dei quattro servitori, il giovane Fletcher si esprimeva in una lingua strana, che gli altri non comprendevano, e che proprio nessuno si sarebbe aspettato di sentir parlare nel bel mezzo di un campo di rugby inglese: -Meine Gott… wo bihn ich?
Il giovane si alzò di scatto e balzò in piedi, come se l’esser stato travolto dai centoventi chili in corsa dell’ala chiusa di tre quarti di sinistra dei Fox, Signor James Willingson, lo avesse disturbato non più di un'impertinente piuma sul naso.
Parlava ancora in quell'idioma, ma addolciva progressivamente il timbro gutturale del suono usato e rendeva via via meno spigoloso e più circolare l’arrotolamento della lingua intorno ai fonemi, finché arrivo ad esprimersi in perfetto Cockney.
-Mi era davvero parso che parlasse tedesco…
Miss Beckerfield aveva un fratello in Renania e avrebbe giurato che il ragazzo… ma via, era l’idolo di casa, il mediano di mischia Paul Fletcher di Wokingham, Berkshire, figlio di Sir Percivald Fletcher, l’industriale tessile, nobile fra i più raffinati, accreditato alla corte Reale e stimato esperto di stoffe orientali e indiane; il giovane era nato e cresciuto nei paraggi del campo, era stato svezzato con pane di frumento di Cornovaglia e burro di latte di pura vacca britannica…
Sulla scia del patriottico pensiero, Miss Annie si convinse di aver avuto le allucinazioni e si ripropose di ridurre il numero delle sorsate di brandy con cui salutava ormai di norma l’arrivo dell’alba.
Sulla grande terrazza, il sole era ancora alto nel cielo. Ampie strie di rosso sovrastavano la linea dell’orizzonte, che delimitava lo sguardo sull’ampia spianata di ben cinquemila ettari di dote gentilizia.
Il prato era vestito in perfetta uniforme inglese, ogni filo di erba aveva la stessa altezza e lo stesso spessore di quelli contigui.
La proprietà della famiglia Fletcher era completata dal seicentesco maniero nel centro. Il sobrio castello in pietra rossa Tudor era illuminato dalla luce del tardo pomeriggio, appena qualche ora dopo la fine dell’incontro di Rugby.
Il giovane Paul stava consumando il tè in compagnia dei suoi tre fratelli minori, e di sua madre Nora; pensava alla partita, e si sorprendeva di non riuscire a ricordare quasi nulla. Il campo di Rugby si stagliava nella sua memoria in tutto il suo splendore, ma vuoto come lo aveva visto al risveglio dopo la caduta. Già la caduta… anche di quella poi, non rammentava molto.
Si era dovuto accontentare della parola dei numerosi testimoni, che avevano parlato di una carica irregolare dell’avversario, dell’immediato intervento arbitrale e quant’altro.
Dopo qualche minuto, il vecchio George raggiunse i familiari e si accomodò sulla sua poltrona personale, sempre al solito posto, al vecchio tavolo in ferro battuto.
-Complimenti, figliolo.- disse Sir George muovendo impercettibilmente le labbra e continuando a fissare il liquido rosso bollente e fumante che Nora gli serviva.
-Ottimo aroma, come sempre.- aggiunse quindi con lo stesso tono, riferendosi alla bevanda, ma come se fosse stata la seconda parte di un unico concetto.
-Gliele avete suonate, ai cari cugini bretoni, in’ it?
L’orgoglio anglosassone del vecchio George era evidente, e la piena del patriottismo iniziava a straripare sulle verdi campagne su cui si era celebrata la vittoria sui Gallesi.
A quelle parole Paul si rese conto che apprendeva solo allora il risultato finale della partita.
Era sempre più confuso.
Di getto, e senza sapere il perché, gli domandò:
-Nonno, sei mai stato nell’Husum?
-Dove, figliolo?- rispose George mentre con parsimonia versava lacrime di latte nel tè.
-E’ in Prussia, nel Nord, credo…
-Oh, il Nord. Non mi pare di esservi mai stato, ma conosco per la sua fama la città di Kiel. Si trova nello Schleswig, figliolo. La terra d’origine degli Angli, se ci tieni a saperlo. Noi tutti discendiamo da quelle popolazioni… ma questo discorso non è politicamente salutare, al giorno d’oggi. Capirai bene, noi, gente d’Inghilterra non ammetteremmo mai di essere figli dei tedeschi -sorrise sornione, e concluse: -certo che no, certo che no…
Laboratori Shenghian, Kai Feng, Repubblica della Cina Orientale, febbraio 2048.
-Che diavolo vuol dire, “quantici”?
-Signore, l’Inviato può cambiare livello temporale esclusivamente compiendo dei balzi corrispondenti ad un tempo esatto, la cui energia è un multiplo intero, immensamente grande, di un singolo quanto di luce.
-Fisica atomica.- precisò il terzo.
-In altre parole, Signore, l’Inviato "salta" ogni volta di ventiquattro anni, sei giorni, cinque ore, ventisei minuti e cinquanta secondi. Non un secondo di più, né meno.
-E ora si muove solo in avanti…- fu ancora il terzo a precisare.
-Dal passato verso il futuro?
-Esatto, Signore.
Berlino, dicembre 1938
-Professor Hahn, non dovranno mai saperlo. E’ da mesi che ci tengono d’occhio, non fosse altro che per il fatto che Lise e Wilhelm sono ebrei, ma sta a noi continuare a illuderli che ancora non siamo venuti a capo di nulla. E nel frattempo, faremo avere la notizia ai ricercatori dei paesi liberi.
La voce di Fritz tremava mentre il giovane sussurrava quelle parole.
Il bombardamento del nucleo atomico dell’uranio con i neutroni lenti, scoperti qualche anno prima dall’italiano Fermi, aveva avuto successo.
Una delle più importanti porte sulla strada del progresso era stata aperta per sempre.
L’intero esperimento era stato condotto da Paul, Fritz e Lise sotto la guida del Professor Otto Hahn.
Alla fine dell'esperimento decisivo, Paul Brauer si era come svegliato all’improvviso, e un profondo disorientamento si sovrapponeva in lui alla consapevolezza di trovarsi a lavorare nel laboratorio di uno dei chimici più stimati al mondo. La sterminata conoscenza della materia e delle sue leggi, le nozioni di chimica degli elementi, perfino le avvincenti ipotesi sul decadimento nucleare della Dottoressa Noddack, pilastro teorico del successo ottenuto, gli sembravano un enorme contenitore vuoto.
La muffa del dubbio aveva trovato terreno fertile per attecchire e crescere nel suo stato confusionale.
Per un attimo, Paul Brauer ebbe voglia di richiudere quella porta, e tornare nell’era pre-atomica, dalla quale il gruppo di chimici aveva appena fatto uscire per sempre l'umanità.
L’unica cosa che aveva ben chiara in quel momento era la necessità di tenere segreta la scoperta. Fritz aveva ragione, era importante che Hitler non arrivasse mai a sapere cosa era successo nel seminterrato del numero 7 della HildeburgGasse.
Gli tornavano in mente le parole del nonno, Konrad, quando, gonfiando un palloncino di vetro appena fuso, gli aveva detto che da quella massa amorfa potevano nascere uno splendido gioiello di cristallo rosso simile al rubino, che sarebbe finito sul generoso decolté di qualche signora di classe, oppure uno squallido posacenere di vetro grezzo, dimenticato per sempre sul tavolo di un’osteria.
Dipende tutto dall’affetto ci che metti, amava ripetere Konrad il vetraio al piccolo Paul.
Era con lui che era cresciuto, nella vecchia bottega a Francoforte, ed era da lui che il ragazzo aveva ereditato due cose: la passione per la chimica e la certezza che la scienza e la razionalità dovessero essere sempre uno strumento per la felicità, per la realizzazione della bellezza dell’essere umano.
Una certezza che, suo malgrado, quel giorno vacillò pericolosamente.
Laboratori Shenghian, Kai Feng, Repubblica della Cina Orientale, febbraio 2048.
-Ecco, vede, Signore, ogni volta che compie un "passaggio", un "salto", l'Inviato appare, ovvero si materializza nel tempo di destinazione; ma in quell'istante si crea una deformazione spazio-temporale, cioè, si genera una nuova crono-linea, nella quale la nuova "persona", l'identità assunta, per così dire, dall'Inviato, è… sempre esistita. Nessuno quindi "vede" la sua apparizione; per gli altri, lui c'è sempre stato.
Erano scarse le speranze che il Colonnello comprendesse la Fisica Sperimentale del Tempo in modo indolore.
-E quando l'Inviato esce di scena, si genera un'ulteriore crono-linea in cui lui non è mai esistito- precisò il terzo uomo- e questa crono-linea si sostituisce alla precedente, diventando l’unica reale.
-Ossia, nessuno si accorge della sua… sparizione; voglio dire che per loro, quando va via, lui non è… mai esistito.- precisò l'altro.
-E dunque, perché facciamo tutto questo?- chiese il Colonnello.
-Non interveniamo mai sugli eventi; agiamo per la conoscenza, Signore.
-Per la conoscenza.- ripeté orgogliosamente il terzo uomo.
-Il Colonnello alzò un sopracciglio in segno di scherno, fissando alternativamente gli altri due.
-Signore, l'Inviato, senza nemmeno saperlo, ci trasmette dei dati, continuamente. Sono semplici onde elettromagnetiche, caratteristiche del suo cervello, e non starò qui ad annoiarla spiegando come riusciamo a captarle lungo la curvatura del tempo; è un sistema innovativo, come lei sa. Da questi segnali, attraverso un procedimento particolare e lungo, possiamo ricavare delle approssimazioni degli eventi che l'Inviato vive in prima persona. In differita, per così dire, e non in diretta. Inoltre, monitoriamo le sue reazioni emotive, e abbiamo informazioni anche sulla sua memoria, sui suoi ricordi del momento. L'Inviato non ha piena coscienza di sé durante i suoi balzi. Acquisisce sempre una nuova identità, e i ricordi della crono-linea neonata si fondono istantaneamente con quelli delle precedenti, nel nuovo presente in cui egli arriva. Questo gli causa un disorientamento continuo. È come se vivesse tante brevi vite, una dopo l'altra, per una parte di esse, mescolando ricordi, emozioni, desideri delle une e delle altre. È per questo che la selezione psico-attitudinale è così severa…
-Già, ma il problema è che questo esperimento sta costando un mucchio di soldi all'Amministrazione della Repubblica, però qualcosa non ha funzionato, corretto?- esclamò il Colonnello con aria spazientita.
-Corretto- replicò apaticamente il terzo uomo.
-Più esattamente,- aggiunse dopo una pausa –a quanto pare, non siamo più in grado di dirigere il movimento dell'Inviato. Normalmente, e siamo al terzo esperimento, possiamo decidere se andare avanti o indietro, e dove condurlo e quando, comunque rimanendo nel passato. Ora invece l'Inviato sta risalendo la linea del tempo unidirezionalmente, e fuori dal nostro controllo.
-E poi, c'è quel ricordo permanente che muta aspetto, ma è sempre lì nella sua testa, in ogni tempo, in ogni situazione in cui si è trovato…
-Quale ricordo? – chiese a questo punto il Colonnello con genuina curiosità.
-Suo nonno.- rispose l'altro con un velo di sarcasmo –Nella sua vita reale, quella del presente, quest'uomo per lui deve contare molto…
-Ma non sappiamo perché.- aggiunse il terzo uomo.
-L’identità dell’Inviato deve essere tenuta nascosta a noi operatori, è la regola…
Il Colonnello sospirò, riaccese la sua pipa e riprese a fumare, molto più nervosamente di prima.
Houston, Texas, Gennaio 1986
La spinta gravitazionale era al limite della tollerabilità.
Il Monitor rimandava a terra le immagini riprese all’interno dell’abitacolo, grossolane e confuse, proprio come la tecnologia spaziale dell’epoca.
L’eco delle parole dei piloti e dei tecnici a terra risuonava nell’immenso padiglione di cemento armato, progettato per resistere all’eventualità, a quel tempo non improbabile, di una guerra nucleare.
Maggie Scobee piangeva, e nemmeno lei sapeva perché.
I congiunti degli altri piloti sembravano più rilassati; Donna Smith, lei ne aveva viste di peggio durante la guerra nel Vietnam, quando aveva aspettato il ritorno di suo marito per anni, sopravvivendo grazie all’affidabilità della US Mail. In quel periodo salutava sempre l’arrivo del portalettere accogliendolo come fosse stato il Presidente in persona a portargli notizie dell’amato Michael J.
Nella sala dello Space Center c’era anche Billie, il nipotino, che guardava il cielo a bocca spalancata. Erano già nonni, i signori Smith, e da ben tre anni e mezzo.
Martha Resnik, Johanna Mc Nair e Ann Jarvis, mogli dei tre rispettivi ufficiali, continuavano a guardare in silenzio quelle immagini, tenendosi per mano, la donna nera nel centro, fra le due amiche che sembravano quasi volerla proteggere.
Anche Lisa Kai Onizuka sembrava dominare la sua ansia.
L’unico ad essersi accorto che Maggie piangeva era John McAuliffe, il marito di Christa, che era stata selezionata mesi prima per essere la prima insegnante in un programma spaziale.
John era con Kim e Peter, due allievi della moglie, che rappresentavano la scuola in cui la donna insegnava. Altre centinaia di studenti ammiravano la salita dalla piattaforma panoramica sull’altro lato della baia, stupefatti e orgogliosi.
Lo Space Shuttle Challenger saliva in modo apparentemente regolare verso la sua destinazione orbitale.
Il controllo della missione era appena passato dal Kennedy Launch Control Center al Mission Control Center di Houston, Texas
[1].
Ingegnere Processamento Dati: -Distacco confermato.
Direttore di Volo: -Distacco.
Ingegnere Sistema Booster: -Decelerare a novantaquattro…
Direttore di Volo: -Novantaquattro…
Michael Smith: -Siamo a Mach uno...
Dick Scobee: -Andiamo verso diciannovemila.
Ingegnere Sistema Booster: -Mancano tre ai sessantacinque…
Direttore di Volo: -Sessantacinque.
Ufficiale Dinamica di Volo: Confermata regolazione.
Direttore di Volo: -Grazie…
D. Scobee: -Accelerazione…
M. Smith: -Trentacinquemila, andiamo verso uno punto cinque…
Comunicatore alla Capsula: -Challenger, accelerare a manetta.
D. Scobee: -Roger, accelerare a manetta…
M. Smith: -Uh Oh!
Due sole sillabe, due brevi suoni pronunciati con la quieta rassegnazione di chi aveva compreso in un istante che non c’era più nulla da fare.
Uh, oh.
Il verso del terrore, che Maggie, Martha, Johanna, Ann, Donna, Lisa Kai e John avrebbero sentito nei loro peggiori incubi per gli anni a venire.
Non fu mai necessario che qualcuno spiegasse cosa era successo al piccolo Bill.
Che gli spiegasse perché il nonno e ad altri sei membri dell’equipaggio non rientrarono mai a terra, da quel giorno.
Il bimbo si smaterializzò mentre teneva la bocca incollata alla grande finestra panoramica. L’ombra di vapore sul vetro si asciugò in un tempo maggiore di quel che fu necessario alla sua sparizione.
L’immensa nube della deflagrazione rimase sospesa nell’aria per ore, a decretare la fine di un sogno di conoscenza.
Muta testimonianza che donne e uomini vivono di esigenze di ordine superiore ai bisogni di ogni giorno… e monito per il futuro del genere umano: mai più ricerca senza verità.
Laboratori Shenghian, Kai Feng, Repubblica della Cina Orientale, febbraio 2048.
Il Colonnello Shi-Huan sedeva in silenzio, e ostentava un distacco emotivo che non era affatto sincero; in realtà aveva dato credito al progetto sin dall’inizio, e ora era deluso, e rammaricato.
I due operatori, Lamez e Yuri, si comunicavano con lo sguardo il timore di perdere i finanziamenti del Governo. Ogni venti minuti un nuovo rapporto sulle attività dell’Inviato, ormai fuori controllo, veniva puntualmente consegnato nella stanza.
Miss Haley, l’assistente personale dei due ricercatori, entrò e si rivolse a uno di loro:
-Signor Lamez, c’è un uomo da basso che chiede di lei, e benché io abbia tentato in tutti i modi, non ne vuol sapere di andar via…
-Un uomo, Miss Haley? chi diavolo è? e cosa vuole qui?
-Continua a ripetere che…
-Mi dica, la prego.
-Ecco, io…- la donna, visibilmente imbarazzata per non essere riuscita a liberarsi del seccatore, continuò: -Sostiene di essere suo nonno; grida, e dice che la sta cercando da anni…
Il Colonnello strabuzzò gli occhi.
Sia lui che Yuri sapevano che Lamez aveva perduto l’intera famiglia nell’ultimo conflitto del Pacifico, ma solo il militare aveva intuito cosa stesse accadendo; nel momento in cui l’intuizione prendeva corpo, l’immagine di Lamez nello specchio verso cui il colonnello era rivolto svaniva gradualmente. E con un ritardo di pochi attimi, anche il ricordo di quell’immagine svanì dalla sua mente.
E come nulla fosse accaduto, Yuri parlò: -colonnello, secondo gli ultimi rapporti, l’Inviato avrebbe superato la soglia del presente, e in tal caso il suo percorso nel futuro non sarà più monitorabile. Immagino che il Governo comanderà la soppressione del progetto, e non potrò che accettare questa decisione.
-Io, ecco… - l’ufficiale si sentiva stordito, confuso.
-Certo…- aggiunse poi Shi-Huan, esitando ancora, come se qualcosa di molto importante fosse appena sfuggito alla sua attenzione. Come sottratto al livello cosciente da un colpo di vento, violento e inatteso.
Appena furono usciti dalla stanza, Miss Haley chiese se doveva chiamare un taxi.
-Ne occorrono due, Miss Haley, uno per me e uno per il Colonnello.
-Inutile dire, Signor Yuri, che poiché io e lei siamo i soli individui coinvolti, la notizia dell'insuccesso non dovrà trapelare all’esterno.
-Può contarci.- disse Yuri, prima di entrare nella vettura.
Il vento si calmò, nelle strade di Kai Feng.
[1] Segue traduzione a cura dell’autore della conversazione originale tra il Centro di Controllo e i piloti