giovedì 17 febbraio 2011

L'intervista ad Alberto Cola, vincitore del Premio Urania 2009.

Con grande piacere riporto la versione italiana della mia intervista ad Alberto Cola, vincitore del Premio Urania 2009 (ovvero l'edizione più recente), appena pubblicata in lingua inglese su The Portal, sito internazionale che si occupa di fantastico e fantascienza a livello mondiale, con il quale collaboro da qualche tempo. 
Sono convinto gli autori italiani meritino maggiore attenzione, anche a livello internazionale, di quella che è oggi loro riconosciuta, e mi auguro che questo pur modesto contributo, insieme alla precedente pubblicazione dell'intervista ai curatori di Ambigue Utopie, possa andare in questa direzione.
Il prossimo pezzo che pubblicherò nel portale, relativamente alla cultura del fantastico in Italia, sarà con tutta probabilità dedicato alla Carboneria Letteraria, il collettivo di autori italiani di cui da poco tempo sono onorato di far parte anch'io, e di cui è membro lo stesso Alberto.
(L'intervista, per la quale ringrazio il Carbonaro Premio Urania 2009, è accessibile in versione inglese seguendo questo link).



Francesco - Ciao Alberto, e benvenuto. Partiamo dalla motivazione della tua recente vittoria del Premio Urania con il tuo terzo romanzo, Lazarus: “per le superiori qualità stilistiche, l’eccellente inventiva e il tratteggio di una civiltà tecnologica in cui il ritorno dei morti è la premessa per una problematica indagine sul futuro.” Si direbbe che si tratti di un romanzo in cui si mescolano elementi fantascientifici e horror. Che direzione sta prendendo la letteratura fantastica dal tuo punto di vista? Che differenze ci sono in tal senso fra l’Italia e il mondo anglofono?

Alberto - Ciao tutti. No, nulla di horror. Solo un po’ di sana science fiction che, come spesso accade, fa da specchio alle nostre paure, alle domande che continuiamo a porci senza trovare le risposte adatte. Di mio poi amo scrivere con contorni sfumati, nel senso che i miei lavori “soffrono” di una certa commistione di generi, ma non è questo il caso. Credo che la commistione sia il reale salvacondotto per la narrativa di genere, e del resto sperimentare e travolgere il lettore con coordinate sempre più aleatorie ritengo sarà una vera panacea per questo tipo di letteratura. E senza dubbio il mondo anglofobo è più aperto rispetto all’Italia.

F. Il protagonista di Lazarus è un redivivo Yukio Mishima. Cosa ti ha indotto a questa scelta? Che importanza ha che il protagonista sia un uomo che nella realtà si tolse la vita per i suoi ideali? E che fosse uno scrittore?

A. Mi è sempre rimasto difficile resistere al fascino che un intellettuale come Mishima (definirlo solo scrittore sarebbe riduttivo) riesce a emanare anche a 40 anni dalla sua morte. Diciamo che un uomo in grado di prendere su di sé la responsabilità delle proprie scelte è raro. Ai giorni nostri avrebbe fondato un partito per proteggersi, lui invece scelse una strada che gli donò una reale immortalità. Che poi sia personaggio controverso e scomodo non fa che aumentare le sue peculiarità.

F. In un’intervista hai dichiarato che il romanzo parla (anche) di “falsa immortalità”. Puoi spiegarci cosa significa?

A. L’immortalità che gli uomini cercano attraverso l’effimero, l’inutile, l’artefatto. E da questo punto di vista invece l’irruzione di Mishima in una società futura dove ciò è portato all’estremo, rappresenta una contraddizione all’ennesima potenza. Tra coloro che cercano il modo per perpetrare la propria vita e resistere al tempo, l’unico dotato di una reale immortalità è colui che ha scientemente cercato la morte.

F. Quali sono i tuoi riferimenti nell’ambito della letteratura di genere (stranieri e italiani)?

A. Gaiman, Ballard, Simmons… Coloro che dal mio punto di vista hanno, o avevano, la capacità di tradirti a ogni pagina con l’inaspettato. Per quanto riguarda gli italiani il discorso è più complesso. Credo il più conosciuto sia Evangelisti, ma esistono molti altri bravi autori degni di questo nome “rinchiusi”, passami il termine, nei loro confini.


F. Veniamo così alla situazione dell’editoria in Italia. In un’intervista hai affermato che in questo paese “…sembra che uno scrittore debba per forza passare per un premio per pubblicare”. Così è stato in effetti sia per Lazarus che per Ultima Pelle, vincitore del Premio Kipple, oltre che per vari tuoi racconti. E’ davvero così? Ci racconti come la pensi?

A. L’Italia è un paese molto particolare. La narrativa di genere non ha mai realmente attecchito e qua da noi il perché è argomento che si dibatte da decenni. Malgrado la presenza di un nutrito e capace gruppo di autori, le difficoltà sono sempre infinite. Gli stessi romanzi che hai citato erano stati rifiutati in passato da altri editori con le motivazioni più diverse, ma alla fine il problema è sempre che gli incerti dati di vendita condizionano le scelte. Se poi è più colpa del mercato che non recepisce, o degli editori che non riescono a educarlo in tal senso, non saprei dirti. Sta di fatto che a soffrirne sono quegli autori che avrebbero davvero qualcosa da dire in un panorama più ampio a livello internazionale. Ma avendo la fortuna di essere dotati di una visibilità quasi nulla…

F. Hai mai pensato di far tradurre un tuo romanzo in altre lingue, o hai aspettative o progetti editoriali in tal senso?

A. Al momento no. Ma restiamo sempre in mezzo al guado: e poi, chi si prenderebbe la briga di pubblicarlo senza un minimo di nome da spendere? Esistono ancora editori che fanno gli editori a livello puro, cioè che azzardano investendo su uno sconosciuto? Ti autorizzo a dare il mio numero di telefono, se vuoi.

F. In queste settimane stiamo assistendo all’esplosione dell’editoria digitale. Cosa ne pensi come lettore, e inoltre come autore, anche alla luce del fatto che il tuo primo romanzo, Goliath, è da poco uscito in versione e-book?

A. Di sicuro non dispiace che una tale innovazione irrompa in un mercato per certi versi asfittico. Sta di fatto che una reale maturazione commerciale è ben lungi dall’essere a portata di mano, quindi al momento non mi faccio troppe illusioni né mi pongo troppe domande.

F. Scrivi sulla base di una struttura ben ponderata in partenza o ti lasci prevalentemente andare all’improvvisazione?

A. Metà e metà. So sempre da dove partire e dove dovrò arrivare. Poi nel mezzo ci sono tante cose che si accavallano e chiedono attenzione, personaggi che indicano una strada e altri che si oppongono. Ma alla fine fanno quel che dico io, anche se un pizzico di sana anarchia è sempre presente.

F. So che fai parte di un collettivo di autori italiani, la Carboneria Letteraria. Puoi dirci qualcosa in merito alla tua partecipazione ai progetti che ne sono scaturiti e, più in generale, sulla Carboneria stessa?

A. Si tratta di un collettivo formato da molte voci, assolutamente indipendenti, autonome e singolari. Per il momento ci siamo limitati a pubblicare antologie di varia natura come “Primo incontro”, “Frittology”, “Uomini a pezzi”… in futuro chissà. Ciò che ci contraddistingue può essere riassunto nella prima frase del nostro manifesto: “La Carboneria Letteraria, come dice il nome stesso, è un'associazione segreta di Pulcinella volta alla cospirazione letteraria, al consumo di carboidrati con degno accompagno di beveraggi ed altre espressioni artistiche”. In sostanza, al di là di usare le parole come scusa, l’aspetto più importante è la passione da condividere con autori che per prima cosa sono persone, e in quanto tali hanno molto da raccontare. Che poi incidentalmente questi racconti finiscano su carta è un dettaglio alternativo.

F. Alberto Cola si riconosce come autore esclusivamente di genere o intende cimentarsi anche con altre forme di narrativa?

A. Il sottoscritto ama la parola scritta in quanto tale. Il genere è un dettaglio fornito dal gusto, ma la voglia di cambiare non può che essere salutare per chi scrive. Come in tutti gli aspetti della vita, osservare le cose da prospettive differenti rinnova la passione, no?

Questa intervista, realizzata a gennaio 2011, è stata pubblicata in lingua inglese su The Portal.

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