Questo racconto è giunto settimo al concorso "Ferrara&Ghost" 2008. (qui: Comunicato casa editrice)
-E’ solo un libro. Un maledetto libro. Un normalissimo, vecchio libro. Pieno di polvere, per giunta!
Sollevò la pesante e ampia copertina e la lasciò ricadere sul tavolo con un tonfo sordo; la vista della nube di pulviscolo lo fece tossire.
Continuava a ripeterlo, era solo un vecchio libro, un mucchio di pagine ingiallite dagli anni e tenute insieme dal caso più che dalla colla secca, una diavoleria prodotta da qualche santone incallito, o da un sedicente cartomante cacciato da un circo.
Tanto scompiglio per nulla, pensò.
Eppure qualcosa lo turbava profondamente, e che davvero non stesse accadendo niente non lo pensava affatto.
Aveva trovato il volume solo un paio di settimane prima, sepolto sotto quintali di avanzi, scartoffie e vecchiume di cui aveva deciso di sbarazzarsi, pur di ripulire una volta per tutte la piccola cantina.
Il titolo, scritto in caratteri oro sbiaditi, immersi nel legno ruvido e scolorito, aveva attratto la sua attenzione.
“The Book of Thy Life”
Quelle poche parole si perdevano fra segni e simboli magici che non conosceva, e che rimandavano a un mondo, quello dell’esoterismo, che aveva sempre disprezzato e ignorato.
Non aveva mai notato il volume in precedenza, ed immaginò che fosse uno fra le dozzine di vecchi e noiosi libri che sua madre gli aveva infilato in casa, insieme alle altre anticaglie e i cimeli che si era trascinata dietro al rientro dall’India, dove aveva trascorso gran parte della propria vita come leale suddito dell’Impero Britannico.
Sulle prime, Johnny aveva pensato di venderlo, ma sapeva bene quanto i vecchi libri, scritti in inglese per giunta, fossero difficili da piazzare a Roma. Aveva già tentato invano di disfarsi di una vecchia bibbia americana degli anni ’60, e il giro dei librai di Campo dei Fiori e Via del Pellegrino, gli unici con cui riteneva di poter concludere l’affare, era stato, manco a dirlo, del tutto improduttivo. E se non ci era riuscito nel cuore di Roma con il sacro testo, figurarsi quante speranze potevano esserci con un cumulo di stregoneria pagana.
Di gettarlo via non se ne parlava; la sola idea di mandare al macero un libro, qualunque libro, gli induceva un insopportabile senso di colpa.
E così, in un giorno piuttosto grigio, aveva deciso di mettersi a cercar colori, e aveva finalmente aperto il volume, sperando in chissà quale scoperta.
Con grande disappunto, dopo la prima pagina interna che riportava di nuovo il titolo esattamente con gli stessi caratteri della copertina, e la seconda, dominata dal sorriso sardonico, per non dire malevolo, di una facciaccia da clown, tutte le pagine successive apparvero bianche come la neve.
Deve trattarsi di un diario, che però non è mai stato iniziato, pensò.
Lo stupore aumentò quando ad un tratto si rese conto che c’era qualcos’altro che proprio non quadrava: come poteva un diario, benché inutilizzato, dopo almeno cinquant’anni, esser composto di pagine bianchissime, lucide, pulite e profumate come la culla di un neonato?
Poi, mentre il suo sguardo si perdeva nelle profondità di quell’assenza totale di segni del tempo, sentì uno schiaffo di vento freddo, come se qualcuno avesse spalancato all’improvviso una finestra in una serata di pioggia battente. Impaurito, sollevò lo sguardo e si guardò in giro, pur sapendo che là sotto non c’erano finestre, e quando tornò a posare gli occhi in basso, balzò indietro per lo spavento.
Aveva visto un testo, ed era certo che prima non ci fosse.
Figlio della madre terra
Concepito nel passato
Al fin di una lunga guerra
Fui qui dentro imprigionato
Volle accertarsi che fosse la stessa pagina che aveva visto bianca, come tutte le altre. Era proprio così, era la stessa pagina, ossia la terza, quella dopo il clown, mentre le successive, che sfogliò in fretta, continuavano ad esser bianche.
Si stropicciò gli occhi, e i pochi istanti di quel gesto furono sufficienti perché una seconda strofa fosse apparsa sotto la prima.
Di qui in poi non mi tradire
Abbi fede, mio signore
Il futur saprò predire
Tuo, fedele, servitore
Tutto era scritto in grossi e ingombranti caratteri che parevano antichi, pieni di figure e ghirigori che ornavano le maiuscole e i contorni, e la seconda strofa aveva occupato tutta la metà inferiore del foglio. Senza esitazione, con un’avidità tanto grande da aver sopraffatto il terrore, voltò istintivamente la pagina alla ricerca del seguito.
Decise di mantenere lo sguardo fisso stavolta, e come se venisse scritta da una penna invisibile, che tentò invano di afferrare agitando le mani sopra il libro, vide comparire dapprima la data di quel giorno, in alto, e poi un’altra strofa.
Al calar della giornata
Una donna incontrerai
Ella ti parrà rinata
E te ne innamorerai
Fece appena a tempo a leggerla mentre veniva scritta. Il libro si richiuse repentinamente, quasi con rabbia; il colpo produsse una ventata che lo investì in pieno, costringendolo a proteggersi il viso con le mani.
Tentò inutilmente di riaprirlo, ma il volume sembrava incollato su se stesso, e non riuscì più nemmeno a spostarlo.
Per quanto gli fu possibile, tentò di vivere il resto di quella giornata come una delle tante.
Andò al lavoro, una piccola ditta di vendita di elettrodomestici di cui era capo contabile. Un posto gramo, ma quanto mai necessario. Incontrò gli amici, e non disse loro nulla. Loro lo invitarono ad una festa, che in realtà trovò piuttosto noiosa.
Sulla via del ritorno, si imbatté in un incidente stradale; era appena avvenuto, e non c’era ancora nessuno a prestar soccorso. Si fermò subito e si lanciò verso il centro della carreggiata, dove una donna giaceva distesa con gli occhi chiusi, paurosamente vicino ad un’auto in fiamme. Senza troppo pensarci, infilò le braccia sotto quel corpo, graffiandosi a morte sull’asfalto, e la sollevò, così com’era, cercando di non alterare la sua posizione, per quanto gli fu possibile.
Il corpo era snello e leggero, ma il tragitto era lungo; riuscì a fatica a raggiungere una distanza che valutò sufficiente e la posò di nuovo in terra, stavolta sul prato, soffice e umido di brina.
Dopo averle scostato i lunghi capelli neri che coprivano parte del volto, lei sembrò rinvenire.
Era tremendamente bella, i suoi occhi erano più scuri e profondi del lago di Leeds, la città in cui era nato, e la sua bocca sembrava disegnata per la pura felicità di un uomo.
Lei lo vide e gli sorrise, mentre le fiamme venivano domate dai soccorritori appena giunti.
Si chiamava Lisa e fra una serata al cinema, una festa danzante e un paio di cene romantiche, divenne la sua ragazza fissa. Presto si ritrovò a sperare di non perderla mai.
Decise di non parlarle del libro; era troppo rischioso, lei si sarebbe potuta spaventare, e lui non voleva perderla per un nonnulla.
Ricordò una per una le parole delle tre strofe; aveva avuto la prova delle capacità di quello strumento, che non gli riusciva più di considerare un libro, e sapeva che non poteva e non doveva tradirlo.
Già, ma continuava a chiedersi cosa significasse tradire. Come si fa a tradire qualcosa che non si comprende?
Solo dopo una settimana ebbe il coraggio di scendere di nuovo in cantina. Il libro non era più in terra dove lo aveva lasciato. Si trovava di nuovo in fondo al mucchio, dove lo aveva trovato la prima volta.
Lo tirò fuori e lo aprì.
Giunto alla pagina del clown, notò che stavolta il pupazzo gli strizzava l’occhio; il sorriso maligno era diventato una complice occhiata.
Tutte le strofe che aveva letto erano ancora lì, ma… ora erano scritte al passato e in prima persona, come si fosse trattato di un vero diario!
Al calar della giornata
Una donna ho conosciuto
Ella mi parve rinata
E per lei mi son perduto
Voltò pagina, e di nuovo fu schiaffeggiato da un colpo di vento gelido, ma questa volta non si affannò a cercarne l’origine.
Sono eventi assai funesti
che faran sì che ti desti
e dei tuoi sogni nel cuore
non rimarrà che furore
ma tu non dimenticare
di tradir dovrai evitare
La strofa era diversa, nel tono e nella forma, la rima da alternata era diventata baciata, e stavolta la predizione lo spaventò a morte. Passò la giornata a telefonare ad amici e parenti, accertandosi della buona salute di ciascuno, e a tentare di convincere tutti quelli che poteva a non uscir di casa quella sera usando le scuse più strane: una tempesta imminente, il freddo, lo sciopero degli autobus; evitò di vedere Lisa e anzi la implorò di andare a dormire presto e barricarsi nel suo appartamento. La ragazza non capì, ma gli diede ascolto comunque.
Ma ancora una volta il libro ebbe ragione.
Due giorni dopo, Johnny sopportava le parole di un prete anglicano magro, allampanato e senza emozioni sul sagrato della piccola chiesa di campagna del villaggio di Shaftesbury, in Inghilterra, dove fino a due sere prima suo padre aveva vissuto i suoi ultimi anni felici. Aveva avuto un ictus, che doveva averlo colpito nel sonno. Tutti pensavano che non dovesse quindi aver sofferto troppo, ma Johnny sapeva bene che non era così e anzi si sorprese a figurarsi quali orrende immagini possano nascere nei sogni di un uomo che muore.
Il furore lo accecò.
Lui aveva saputo che una tragedia era imminente, ma non aveva potuto farci un bel niente. Il senso di colpa lo annientava, e la felicità che quel libro gli aveva dato iniziava a trasformarsi in odio, intenso, incontrollabile, sanguinoso.
Poi ricordò le parole della sestina; non poteva tradire. Al diavolo!
Alla fine della cerimonia volò a Roma, rientrò in casa e si precipitò in cantina. Afferrò quel maledetto libro e lo scagliò sul tavolo con disprezzo; i suoi sembravano gli occhi di un pazzo. Ma per quanto tentasse, il volume non si apriva in alcun modo, e in quel momento vi fu una violenta scossa di terremoto.
Johnny si rifugiò sotto al tavolo, e il tomo gli stramazzò proprio davanti. Il ragazzo iniziò a piangere, e le sue lacrime cadevano sulla copertina di legno, dove proseguivano la loro corsa scivolando verso il pavimento, senza asciugarsi. Ancora piangente, Johnny ritentò di aprire il libro e stavolta ci riuscì.
Il clown aveva ora uno sguardo serio, non sorrideva più, ma nemmeno pareva arrabbiato come Johnny si aspettava. Per la prima volta gli sembrò davvero un essere umano. Pensò che prendersela con lui era inutile e forse addirittura ingiusto; lui poteva solo fare previsioni, e niente di più. Tutti quegli eventi sarebbero accaduti comunque, e dunque che differenza poteva fare il fatto di ricevere delle predizioni, oltretutto così imprecise e vaghe?
Fu tentato di andarsene una volta per tutte e abbandonarlo al suo destino, ma poi ci ripensò, temendo che quello sarebbe stato considerato un tradimento, e viste le straordinarie capacità del libro non era il caso di sfidare la sorte.
-E’ solo un libro. Un maledetto libro. Un normalissimo, vecchio libro. Pieno di polvere, per giunta!
Tossì per la polvere che si liberò quando lo aprì, che era dovuta al terremoto di qualche minuto prima.
In due sole settimane la sua vita era cambiata completamente; voleva davvero andare avanti in quel modo? Rammentò ancora quel verso semplice e sinistro. Di tradir dovrai evitare.
E così si rassegnò ad assistere impotente alla nascita di una nuova strofa di quell’assurdo poema della sua esistenza.
Questa volta gli sembrò che le parole si formassero più lentamente, come se il libro avesse timore di rivelargli quel che sarebbe apparso.
Non c’è dolo, non c’è inganno
Verità, ma senz’affanno
Il futur che si vivrà
Non è più di questa terra
Il contabile morrà
E con egli la sua guerra
Esitazione. Sconforto. Terrore. Un grido di dolore.
Johnny lasciò il libro in terra, in mezzo alle lacrime di prima, che erano tutte lì intorno, integre. Si alzò, scivolò su di esse, cadde. Sentì un gran vuoto dentro.
Era dunque così che dovevo morire? Pensò, mentre sentiva le forze abbandonarlo, e l’energia della sua vita evaporare in uno sbuffo di polvere. Perse i sensi.
Riaprì gli occhi sulla flebo che lo alimentava. La stanza d’ospedale era buia. In un angolo, abbandonata su una sedia, vide Lisa, e dal respiro lungo, lento e rassicurante capì che la ragazza dormiva, sebbene in una posizione innaturale, con la testa raccolta fra le mani.
Il dottore arrivò poco dopo, e lo tranquillizzò. Johnny era pronto all’incredibile, e non fu quindi facile lasciarsi convincere che non era affatto morto. Non ancora, perlomeno.
Il medico gli disse che aveva avuto un collasso; il suo cuore si era fermato per alcuni minuti, e nessuno sapeva se e quando si sarebbe risvegliato. Ora era però evidente che non c’erano state conseguenze: lui era lì, era cosciente, e riuscì persino a mettersi in piedi. Aveva dormito, se così si poteva dire, per una settimana.
Un pensiero lo colse di soprassalto: aveva sognato tutto, il libro, le funeste predizioni, la morte del padre? Ma no, Lisa era lì, e anche se lei stessa era per lui bella come un sogno, il tocco delle sue carezze era troppo reale per consentirgli di avere quel sospetto.
E poi, ebbe conferma che il padre era morto.
Eppure, nessuno oltre a lui rammentava il terremoto che aveva avvertito l’ultimo giorno in cui era stato in sé. Johnny pretese che Lisa chiamasse la centrale di polizia per averne conferma, e alla fine non si stupì che anche loro sostenessero che non ne avevano notizia.
Il medico, un uomo basso, tarchiato e terribilmente somigliante al suo papà, disse che era stata la sua maniera di vivere internamente il collasso. Molti pazienti, aveva detto, riferiscono le cose più strane e incomprensibili al loro risveglio, e lui non faceva eccezione.
Johnny ripensò al libro, ma ancora una volta non ne fece parola con alcuno.
Era curioso di tornare laggiù e interrogarlo di nuovo, ma dovette procrastinare il suo proposito, perché fu trattenuto in osservazione per altri tre giorni. Era ancora molto debole e non poteva permettersi di lasciare l’ospedale.
Dopo essere stato dimesso, tornò finalmente a casa accompagnato da Lisa.
Al rientro trovò una lettera; la ditta presso cui lavorava lo aveva rimpiazzato per sopperire all’emergenza, ma il suo posto era ancora a disposizione, naturalmente con altre mansioni. In alternativa poteva fruire di un incentivo e andarsene; era un modo elegante per sbarazzarsi di lui. Colse l’occasione per licenziarsi.
Non gli importava più preoccuparsi di cosa sarebbe vissuto, anche perché sapeva che alla sua ora doveva mancare poco, ormai. Tutte le altre previsioni si erano sempre avverate entro pochi giorni, quando non entro poche ore.
Le parole dell’ultima sestina gli vorticavano nella testa, e si sorprese ad osservare che la sua rima era prima baciata e poi alternata; come se stavolta, in quella predizione, dovessero esserci sia del buono che del cattivo. Ma di buono, da quel momento in poi, non era successo proprio nulla.
Quando si fu ripreso, tornò in cantina, contando i propri passi come fossero gli ultimi. Per quanto si sforzasse di trovarlo, il libro sembrava scomparso. Non era più nel solito mucchio, non era sul tavolo, non era in terra. Chiese a Lisa, con finto disinteresse, se per caso avesse notato in giro un vecchio e pesante volume di legno impolverato. Le disse che era il suo diario, ma lei non ne sapeva nulla.
Trascorsero giorni, settimane, mesi. Niente accadeva, e le speranze di Johnny di poter tornare a una vita normale aumentavano. Lisa era sempre con lui, e non lo perdeva mai d’occhio. I sogni di Johnny erano confusi, a volte spaventosi, talora gli sembrava di rivivere tutto daccapo.
Una sera Lisa gli organizzò una sorpresa.
La ragazza gli disse che nemmeno lei sapeva perché, ma aveva sentito la voglia di portarlo in un posto, e pensava che lui si sarebbe divertito un mondo. Disse anche che lo aveva sognato.
Era una tiepida sera di maggio, e nel giardino le rose non si erano ancora piegate al clima caldo della primavera.
Quando Johnny si ritrovò seduto in prima fila nel “Circo della Vita”, appena sbarcato in città con un gran baccano di pubblicità, si chiese cosa mai avesse potuto spingere Lisa a portarlo in quel luogo.
Lo spettacolo non fu nulla di diverso di quel che un circo poteva offrire: tigri ammaestrate, abili saltimbanchi, scimmie dispettose e maghi un po’ imbranati.
Poi, all’improvviso, apparve lui.
Il clown.
Poco prima che lo spettacolo avesse termine, al culmine di una piramide umana formata dagli atleti e dagli artisti, il suo clown, quello del libro scomparso, con il perenne sorriso disegnato sulla faccia e lo sguardo fiero del proprio trionfo.
Con una serie di balzi degni di un atleta, il clown scese sulla pista, e si esibì in una serie di scherzi che fecero ridere il pubblico. Era la scena finale dello spettacolo, ma Johnny temette che fosse anche l’ultima della sua vita.
Tutti ridevano a crepapelle, bambini sporchi di zucchero filato, donne in abiti fin troppo eleganti, rispettabili uomini che sembravano aver perso ogni contegno. Tutti ridevano, tutti si scompisciavano in modo totale, straripante, eccessivo.
Tutti tranne Johnny. Lui sudava freddo, era paralizzato dal terrore, e nemmeno Lisa se ne era accorta.
Il clown smise di scherzare. Persino il sorriso disegnato sul suo volto sembrò scomparso. Poi protese un braccio in avanti e prese ad indicare il pubblico, esattamente all’altezza del livello in cui lui si trovava seduto. Per fortuna, pensò Johnny, sta indicando dall’altra parte. Poi iniziò a ruotare su se stesso. Cercava qualcuno. Cercava lui.
Piombò il silenzio.
Il clown indicava ora precisamente il posto di Johnny, e tutti, vecchi, giovani, donne e bambini, in quell’agghiacciante, assordante e impetuoso silenzio, si voltarono verso di lui.
Il clown prese ad avvicinarsi a grandi passi cadenzati, resi difficoltosi dalle lunghe e goffe scarpe di scena. Vi fu qualche timida risatina, che risuonò nel silenzio del tendone. Il suo braccio era rimasto teso verso di lui, senza scostarsi di un solo millimetro.
Johnny era spaventato a morte. Voleva fuggire, voleva urlare, voleva sparire. Era giunta la sua ora, e nessuno poteva capirlo. Nessuno, nemmeno Lisa, poteva saperlo, e nessuno avrebbe potuto o voluto aiutarlo.
Finalmente il clown gli fu di fronte e finalmente abbassò quel perfido braccio teso.
Poi gli sorrise, e si frugò comicamente nelle tasche, fingendo di non riuscire a trovare quel che stava cercando.
Quindi lo trovò, lo sollevò girandosi verso tutto il pubblico, che esplose in uno scrosciante applauso di approvazione.
Maledizione, pensò Johnny, sono l’unico qui che non si sta divertendo? Anche Lisa continuava a ridere, convinta che a Johnny facesse piacere essere al centro dell’attenzione di tutta quella gente, dopo tanto soffrire.
Quel che il clown aveva estratto era una busta, su c’era scritto solo:
“per Johnny”
con gli stessi, identici, amati, odiati, dimenticati e risorti caratteri del libro scomparso, il diario delle sue sventure.
Mio dio, dunque non era affatto finita!
Il clown si inchinò in un cortese gesto di saluto d’altri tempi, e scomparve in una nube scintillante di vapore. Il pubblico emise un boato di stupore e iniziò ad applaudire soddisfatto.
Johnny infilò la busta in tasca e ancora tremante si mise in coda per uscire.
Quella sera decise di rimanere da solo con il suo destino, e si congedò da Lisa, sforzandosi di ringraziarla per quella che non esitò a definire un’enorme, inaspettata sorpresa.
Si versò un bicchiere di porto, sedette sulla poltroncina e rimase per alcuni minuti a guardare la busta, adagiata sul tavolo.
Infine, si decise ad aprirla.
La morte sovviene nei sogni
Di color che, uomini e donne
Non sentono più il desiderio
Che metta in oblio i lor bisogni
Perché crollino case e colonne
Che impediscono il giusto criterio
Ed or, che non hai più il mio libro
Lasciarti è la gioia in cui vibro
Perché d’arte, dannata e pulita
Sol sia fatta in futur la tua vita
E che tu, di sogni e memorie
Voglia viver, facendone storie.
Se con tanto penare mi hai letto
Or sei tu che darai diletto
Alla tua ed all’altrui prole
Sarai tu, a donar le parole.
Johnny lasciò cadere il foglio, si alzò e si guardò allo specchio. Gli parve di vedere un amico, che gli sorrideva e lo indicava.
Il contabile era davvero morto.
Sospirò felice, si sedette, e iniziò a scrivere.
4 commenti:
Sempre più belli i tuoi racconti!
AR
Grazie!!!
Ciao, ho trovato un refuso: "pur sapendo che la sotto" (manca l'accento).
Un'altra cosa: non e' possibile mettere un rientro all'inizio dei paragrafi? Qualcosa del tipo "div style=etc."? Purtroppo blogger usa uno stile grafico in cui le interruzioni di paragrafi non sono molto chiare.
A questo punto dovrei anche commentare il racconto, penso... E' che a me non piacciono molto le storie in cui c'e' qualcosa o qualcuno che riesce a prevedere il futuro (forse e' solo che ne ho lette troppe di storie cosi'). Finora, tra i tuoi racconti che ho letto, quello che credo sia il migliore e' "tempus fugit".
Grazie Sgwerk, ho corretto il refuso; e grazie anche del commento in genere. Per i rientri, be' in generale concordo con te su Blogger. Vediamo cosa si può fare...
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