venerdì 22 agosto 2008

La fuga

Questo racconto è giunto finalista al Premio Merano Europa 2007.



La fuga

Camminava a passi lenti nel bosco illuminato dal bianco freddo della luna, già alta in quella notte d’inverno.
Erano diverse notti che faceva la stessa strada.
Ma ogni volta aggiungeva una manciata di passi in più, e il cammino percorso si allungava, giusto un po’.
Poi, tranquillamente si rimetteva a letto nella piccola casa fuori dal paese e quando si svegliava, al mattino successivo, non aveva alcun ricordo dei propri passi.
Era ancora un bambino, e a volte gli era sembrato di averli sognati, quei piccoli passi, mettendoli in un mondo pieno di colori, un mondo a misura di bambino che nel suo paese proprio non esisteva.
I cacciatori di frodo avevano visto tante volte le minuscole impronte, e solo qualcuno aveva anche avuto il coraggio di seguirle, fìno a vederle perdersi all’improvviso in mezzo al prato.
Erano anni che il bosco era considerato stregato, e quel cammino verso il nulla era a detta di molti un’altra prova della presenza del demonio.
I suoi genitori non sospettavano delle sue passeggiate al chiaro di luna, perché le scarpine rimanevano sempre pulite come il giorno in cui erano state comprate, e a nessuno capitava di vederlo uscire e poi rincasare.
A guardarlo camminare, con la bocca sorridente e gli occhi chiusi, si sarebbe detto che fosse nottambulo. Ma non dormiva affatto.
Per seguire la voce che lo seduceva ogni notte non aveva bisogno di usare gli occhi; tutto faceva parte di una dimensione che non apparteneva alla veglia, ma non si poteva nemmeno considerare sonno. Ogni volta che andava a letto sapeva che avrebbe sentito quella voce calda e amica, e poi il giorno dopo al risveglio non gli dava più importanza.
Potenza dell’ingenuità di un bimbo.
La voce amica, con il passare delle notti, divenne sempre più seducente.
Il percorso svolto si allungava in fretta, più in fretta che in passato, fino a salire ogni volta di più, su per il sentiero che portava verso la cima del monte.
Andreas iniziò a vivere le sue giornate di bambino in trepidante attesa del momento in cui si sarebbe addormentato, e avrebbe sentito la voce che lo avrebbe trascinato ancora una volta in quel mondo meraviglioso.
Si svegliava contento al mattino presto, e faceva colazione insieme alle due sorelle maggiori, che negli ultimi tempi, intuendo in lui un cambiamento, non perdevano occasione di aggredirlo e litigare.
-Andreas ha le lentiggini più grosse di tutti gli altri bambini della sua classe!
-Andreas non sa leggere bene!
Nikla e Jutta erano sempre più dispettose, e Andreas sentiva in loro una delle tante dimostrazioni di quanto il mondo del giorno fosse noioso e triste, in confronto al fantastico luogo in cui si ritrovava di notte, pieno di giocattoli, e frotte di bambini simpatici che volevano giocare con lui e si contendevano la sua amicizia.
Il ricordo della vita notturna iniziò a fargli compagnia anche a scuola.
Fu spesso sorpreso dalla giovane maestra, con gli occhi a volte spalancati e smarriti nel cielo cupo e nuvoloso fuori dalla finestra, altre invece, chiusi in religioso silenzio, come se pregasse, mentre mormorava:
-che bello…
Le angherie dei compagni aumentarono, e l’odio di Andreas per tutto ciò che riempiva le sue giornate si faceva sempre più forte.
Tornava dalla scuola ogni giorno alle quattro del pomeriggio, dopo aver fatto i compiti per il giorno dopo in un tempo sempre più breve. I suoi voti crescevano, mentre il tempo che aveva bisogno di dedicare allo studio era sempre più contenuto.
Leggeva ormai come i bimbi più grandi e aveva iniziato a scrivere in modo fantasioso e originale, tanto che le sorelle smisero di prenderlo in giro.
Iniziò anche ad essere molto abile con l’aritmetica e la geometria.
Anche a questo i genitori non badarono, convinti che i risultati del ragazzino fossero la conseguenza delle grandi capacità della maestra.
Nessuno sospettava quale fosse la vera ragione delle sue crescenti doti in tutte le materie.
La maestra stessa notò questi progressi e non mancò ovviamente di attribuirsene il merito, pur intuendo qualcosa di strano nel comportamento del bimbo.
Il padre, Eric, lavorava nella fabbrica del pesce, e rincasava sempre molto tardi, in genere dopo aver trascorso le ore libere della sera nella birreria in piazza insieme agli amici, ubriaco di stanchezza addolcita dal doppio malto. La sua unica preoccupazione era portare a casa lo stipendio ogni mese e pagare le bollette.
La madre, Ruth, lavorava al porto, dove faceva la contabile per la ditta che vendeva le partite di olio di balena in tutta la regione, e si occupava della conduzione dei lavori domestici, lamentandosi di continuo per lo stato in cui la casa si trovava per colpa delle tre piccole pesti che la infestavano.
La donna aspettava con impazienza che gli anni passassero e la maggior età inducesse i figlioli a stabilirsi altrove, con la puntualità che solo gli scandinavi sanno applicare in queste circostanze.
La vita di Andreas era buia e monotona come le lunghe notti dell’inverno norvegese e grigia come le sue brevi giornate. Il sole era raro, e insufficiente al suo infantile e sano bisogno di vivere.
L’unico momento di libertà erano i brevi pomeriggi del sabato, in cui aveva il permesso di pattinare sulla pista comunale. Ma iniziava a trovare noioso anche quel passatempo.
La lunghezza delle passeggiate notturne aumentava, e il piccolo aveva ormai quasi raggiunto la vetta del monte.
Attraversò il tunnel della morte in compagnia del pagliaccio Stephan, corse sul cavallo rosso di nome Rijod insieme agli altri bambini e vinse la gara, fu premiato dalla bimba più bella del bosco e fece poi cento giri sull’otto volante in compagnia di un papà immaginario che era il più buono e generoso del mondo.
Tutto in una notte.
E continuava a camminare nel suo fantastico mondo dorato.
La lunga serie di impronte cessava ogni notte più in alto, e la loro profondità nel crescente manto nevoso aumentava ad ogni passo. A guardarle, le piccole impronte erano diventate così profonde che nessuno avrebbe mai immaginato che le gracili gambe del bimbo potessero averle prodotte.
Nessuno lo vedeva, mentre ogni notte ad occhi chiusi rimetteva il piedino nella stessa impronta creata nelle notti precedenti e s’inerpicava su per la montagna stregata, sferzata dal gelido vento del Nord.
La neve cadeva abbondante in quella stagione e il livello del manto s’ispessiva sempre di più.
Andreas andava sempre più avanti, sempre più su.
Passò su torrenti caldi pieni di barche colorate, udì bimbi di ogni parte del mondo incitarlo, guidò trenini elettrici e volò su aeroplanini ad elica telecomandati dal papà più buono e generoso del mondo, che lo chiamava dall’alto del monte:
-Vieni , Andreas… dai, sei tu il più bravo!
L’aria era magica, la neve era una pioggia di caramelle di tutti i gusti, mirtillo, cioccolata, ciliegia.
Le vecchie del paese non riuscivano a dormire in quelle gelide notti.
Addormentavano i loro nipotini raccontando la favola di Hansel e Gretel, le storie degli elfi della foresta e le magie infinite della mitologia nordica.
Poi si coricavano con gli occhi aperti al caldo del fuoco scoppiettante nel camino, e si chiedevano come mai il vento del monte ululasse ormai senza sosta, sempre più impetuoso, facendo sembrare reali le storie appena regalate ai piccoli che ormai dormivano beatamente nei loro lettini di betulla.
Le nonne di Andreas erano morte prima della sua nascita, e i bambini della scuola non si lasciavano mai scappare l’occasione di ricordarglielo, con indicibile e reiterata cattiveria.
Ma Andreas non sentiva la mancanza delle fiabe delle anziane; lui la sua storia fantastica la viveva davvero e ogni notte, ed era sempre più lunga e sempre più bella, e il finale era sempre diverso e sempre più emozionante.
Una notte scoprì che la sua storia poteva cambiare a seconda dei suoi desideri.
La voce del papà più buono e generoso del mondo gli aveva chiesto di esprimere un desiderio, e Andreas aveva chiesto un delfino.
E per le sette notti successive il piccolo cavalcò il suo delfino gigante che lambiva il mare della sua fantasia, continuando a procedere verso l’alto, sempre più bravo, sempre più felice.
-Cosa ti fa felice, Andreas?
-Una mamma buona- disse il piccolo.
E la donna più bella che avesse mai visto comparve sul suo cammino, lo guardò con i grandi occhi verdi su cui cadevano i boccoli rossi, gli tese la mano profumata e gli regalò un enorme orsacchiotto parlante, che divenne presto il suo amico più caro.
Le notti successive Andreas fu chiamato da lui, dal grande orso della foresta, che gli si annunciò re delle interminabili e segrete favole del bosco.
-Andiamo, piccolo principe, saliamo verso la felicità. Ci stanno aspettando!
E Andreas non indugiava mai, e mentre il padre smaltiva la sbornia e la madre riposava esausta, il piccolo usciva per raggiungere il suo parco giochi sulla montagna, tenuto per mano da un orso danzante e in groppa a un delfino tutto blu.
Volle volare e volò. Volle nuotare in compagnia del signor grande granchio del mare e della corte delle conchiglie e nuotò. Ebbe una gran fame e si arrampicò in compagnia di mille bimbi urlanti di gioia sulla torta più alta dell’universo, spalancando la bocca per assaggiare il terreno di dolce crema, cannella e frutta caramellata.
Una sera prima di andare a dormire suo padre era tornato a casa più ubriaco del solito.
-Dov’è quel disgraziato?
Urlò appena entrato in casa.
Ruth cercò di trattenerlo mentre si precipitava su per le scale per riempirlo di botte.
Andreas aveva litigato con Niklas, il figlio dei vicini, cui aveva rivelato di essere il principe della foresta; Niklas aveva pianto d’invidia e il papà di questi aveva riferito l’accaduto al suo, che ritenne a quel punto doveroso raddrizzare le ambizioni del piccolo sognatore.
Andreas si nascose terrorizzato sotto le lenzuola, aspettando tremante i colpi di cinta sulla schiena, come un condannato aspetta l’esecuzione. Eric spalancò la porta e iniziò a sfilarsi la cintura, sbraitando come un feroce orso affamato.
Ma senza che questi potesse accorgersene, il re orso e la regina giraffa vennero in aiuto del piccolo principe ed Eric fu scaraventato violentemente fuori dalla stanza e caracollò per le scale.
Per la prima volta gli amici del piccolo erano giunti prima dell’inizio del sonno.
Ruth raccolse l’uomo, ubriaco fradicio, e non riuscendo a sollevarlo lo lasciò dormire sul pavimento fino al mattino successivo.
Al risveglio, Eric pensò di essere inciampato la sera prima ed ebbe di nuovo voglia di bere dell’altra Acquavite di Linea. Gliela portavano gli amici marinai al ritorno dalle lunghe crociere nei mari tropicali e lui bramava averne addosso l’effetto inebriante quanto più poteva, sin dalle prime ore del mattino; diceva che gli serviva per sopportare le punture del freddo.
Andreas era ormai diventato un prodigio in tutte le materie scolastiche. Scriveva fiabe, faceva i conti più in fretta di Hans il droghiere, conosceva la geografia norvegese meglio di un esploratore reale. Recitava le poesie imparate a memoria in pochi istanti, suonava il flauto con virtuosismo superiore perfino a Johannes il musico.
I suoi genitori iniziarono a preoccuparsi di avere il demonio in casa.
Eric non osava più avvicinarsi alla sua stanza da quando aveva subito quel drammatico incidente. Ruth piangeva spesso e volentieri, non sapeva nemmeno più per quale delle mille ragioni.
Il piccolo le voleva ancora tanto bene, ma lei non lo vedeva più.
E venne la notte in cui Andreas era arrivato in cima, senza nemmeno rendersene conto.
Era una notte senza luna, ma per lui non faceva differenza; non aveva bisogno di luce per volare nel suo mondo incantato e per vederne le migliaia di stelle.
-Ti porterò dinanzi al re dei re, il sovrano di tutti i boschi e di tutte le montagne- gli aveva detto il re orso.
E sulle spalle del grande Troll della foresta Andreas non dovette più affondare i piedini nella neve per arrivare al suo cospetto.
-Sudditi dei boschi e delle montagne, eccolo, ecco il Principe che raggiunge il suo trono!
Il grande Troll lo posò a terra con dolcezza, gli accarezzò la folta chioma bionda e disse:
-Và, piccolo, è giunto il momento che hai sempre sognato.
Andreas camminò sul tappeto rosso sospeso nell’aria, ne seguì le curve intorno alle altissime colonne dorate, continuò a salire sempre più in alto, attratto dalla voce calda del papà più buono e generoso del mondo.
Fu quella, la notte in cui non fece ritorno.
Nel pieno di quella gelida notte, le anziane del paese, che finalmente si erano addormentate, si svegliarono e all’unisono gridarono di dolore.
La mamma Ruth aprì gli occhi e urlò nel buio il nome del figlio. Eric piangeva da ore e non sapeva il perché. Nikla e Jutta, uscite di casa, non sentivano freddo e guardavano il cielo, sorridendo felici.

Quarant’anni più tardi si celebrava come ogni anno la messa in ricordo della misteriosa scomparsa del piccolo Andreas. C’era chi si diceva convinto che i demoni lo avessero rapito. I figli degli anziani cacciatori giuravano ancora di averlo visto volare in cielo, come un angelo fatto di luce. L’intero paese piangeva.

Il consiglio della Galassia si era riunito in seduta plenaria.
Tutti i popoli dello spazio civilizzato erano accorsi quel giorno per presenziare alla cerimonia allestita in occasione della partenza della missione più pericolosa e prestigiosa della storia dell’intero Universo conosciuto. Un gruppo di Esploratori si accingeva a partire per il viaggio più incerto mai tentato prima: l’ingresso nel Secondo Universo.
Gli studiosi di tutti i pianeti e i sistemi confederati, dai pacifici Delfinidi ai guerrieri Kloro, dagli Arman di Aldebaran ai Vinesta di Vega, perfino i selvaggi Koza, deposte le armi dopo eoni di feroce belligeranza, avevano accettato di esser presenti all’evento.
Le guerre tra i pianeti e i sistemi stellari erano cessate come per magia.
Il gran cancelliere prese la parola dopo aver chiesto e ottenuto il silenzio.
-Popoli dell’Universo... siete tutti riuniti al cospetto di questa eccellente corte per ragioni che travalicano i limiti delle pur immense conoscenze di tutte le nostre variegate nature. Solo i popoli barbari dei confini più remoti del nostro Universo sono assenti da cotanta assise. Essi ignorano ciò che noi sappiamo. Abbiamo esplorato ormai tutto lo spazio, siamo giunti ai suoi limiti in ogni direzione, e ne siamo tornati, sconfitti e rassegnati. Non v’è nulla che possa cambiare il corso degli eventi che ormai ben conosciamo. Ardite teorie lo avevano paventato, profeti che reputavamo mendaci lo avevano annunciato, e alla fine, i viaggi di esplorazione spazio-temporale hanno reso realtà i nostri più reconditi e inconfessabili timori: lo spazio-tempo è prossimo alla fine. Il collasso è inevitabile. Partano dunque le Navi di Luce, e ci riportino la conoscenza della strada verso il Secondo Universo, giacché solo questa è la speranza che ci rimane per sopravvivere, tutti. Da quando abbiamo capito che la catastrofe era imminente, abbiamo cercato e arruolato le menti più valide del nostro Universo. E’ dunque con orgoglio che salutiamo colui che è oggi Principe di Cassiopea, Andreas il Terrestre, partire alla conquista dell’Universo parallelo. Egli è l’unico che abbia dato prova, fin da quando bambino fu arruolato sul suo freddo pianeta nell’Armata della Luce, di poter riuscire nella temeraria e impossibile impresa. Che la tua inesauribile fantasia possa guidarti, Andreas.
Andreas il Terrestre pensò a sua madre Ruth e al Re Orso, versò una lacrima, e comandò telepaticamente alla flotta delle Navi di Luce di partire alla ricerca del nuovo universo.
Fu bello tornare a cavalcare i delfini.

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